Best Albums 2023 | Kalporz Awards

Nel 2022 per la prima volta nella storia più che ventennale di Kalporz una donna è arrivata in cima alla top 20 dei migliori album dell’anno scelti dalla redazione.
Per la prima volta si trattava di nome non anglofono, segno di una scena musicale internazionale dove la diversità e le divergenze culturali, geografiche e di genere sono parte di una confortante normalità. È un aspetto che nella quotidianità ci sta sfuggendo, vivendo da vicino una scena musicale italiana impantanata nelle solite dinamiche che sfiorano il grottesco.
Anche nella classifica che prova a raccontare attraverso gli album più significativi questo 2023, come già negli scorsi anni, emerge un avvincente mix di esperienze umane che nel mondo e nei generi tipicamenti anglosassoni portano una storia di radici nigeriane, pakistane, peruviane, etiopi, lusitane. Per un totale di nove artiste su venti nomi in classifica, di tre diverse generazioni.
Come al solito il mix quasi contraddittorio di generi musicali che va dal rap al metal passando per elettronica e psichedelia finirà per farvi sorridere, ma è un po’ la nostra quintessenza.

20. DEBBY FRIDAY
“GOOD LUCK”
(Sub Pop)

L’artista elettronica canadese nata in Nigeria è stata la nostra copertina del mese di marzo: un irresistibile mix di suoni rave, rap e r’n’b con tre autentiche hit, “SO HARD TO TELL”, “I GOT IT (FEAT. UÑAS)” e “HOT LOVE”, che meritano di essere incluse in tutte le playlist di fine anno possibili.


19. KELELA
“Raven”
(Warp Records)

Fa strano pensare che un’artista influente, forse tra le più influenti degli Anni Dieci come lei, abbia realizzato nella sua carriera solo due album in studio. Kelela torna alla soglia dei quarant’anni con un LP che fa da compendio equilibrato ed elegante delle sonorità black della scena queer che a partire dal future R&B ha contaminato la scena dance underground di ogni angolo del mondo. Prova ne sia la presenza tra i credits di LSDXOXO, Bambii e Asmara.


18. LAUREL HALO
“Atlas”
(Awe)

Un sorprendente disco jazzy, oscuro, ambientale mette in lustro il talento più eclettico e ricercato di una delle migliori producer elettroniche dell’ultimo decennio. La classe 1985 del Michigan ha conquistato i cuori della scena underground britannica e berlinese approdando molto giovane sulla prestigiosa Hyperdub.
Ora, tornata negli States e di base a Los Angeles, ha dato una nuova svolta al suo percorso. Tra sassofoni, violini, violoncelli, la voce di Coby Sey, “Atlas” è il disco della maturità, il cui fascino notturno e rarefatto si schiude col tempo.


17. NABIBAH IQBAL
“DREAMER”
(Ninja Tune)

Quarantaquattro minuti che riportano in vita, con una ritrovata energia e ispirazione, derivazioni e influenze della miglior musica britannica, dal dream pop allo shoegaze, dall’elettronica alla rave. Il secondo album dell’artista di origini pakistane ma da tempo residente a Londra è uno degli unici due che era presente anche nella nostra lista di metà 2023. L’altro è quello che la precede in classifica e che segue questa lista di fine anno…


16. MARLENE RIBEIRO
“Toquei no Sol”
(Rocket Recordings)

«È una grande foschia nebbiosa di nostalgia, giocosità, autoriflessione e speranza»: così Marlene Ribeiro (già parte del collettivo GNOD) ha descritto Toquei No Sol, suo ultimo album e debutto discografico a suo nome (e non come Negra Branca) e il disco è quanto di più profondo abbia mai prodotto la musicista portoghese. Le sei tracce, registrate tra Irlanda, Galles, Portogallo, Madeira e Salford, sono un affresco sonoro etereo, ipnotico, policromo, dalle tante sfaccettature: dream-pop, psichedelico, sperimentale.


15. THE NATIONAL
“First Two Pages of Frankenstein” / “Laugh Track”
(4AD)

C’eravamo accorti che qualcosa era ripartito, ma non pensavamo a una “seconda giovinezza” dei National. E invece pare proprio che sia così: se “Last Two Pages of Frankenstein” uscito a maggio è un album di consapevolezza dei propri limiti, presupposto necessario per guardare avanti, “Laugh Track” – pubblicato a sorpresa il 18 settembre – è l’ulteriore dimostrazione di quella rinascita, la messa in pratica. Nessun dubbio: altro che depressione, quella è sicuramente superata, i National sono qui e lo dimostrano con un album pimpante, determinato, volitivo. Si potrebbe parlare di “album gemello” di “Last Two Pages of Frankenstein”, ma non è propriamente così, forse si tratta più che altro di album opposti e inevitabilmente interconnessi. Se volessimo fare una battuta, potremmo dire che i National hanno scritto i loro “Kid A” e “Amnesiac”, anche se lì c’è una comunanza di dna innegabile, mentre i National hanno differenziato maggiormente le esperienze.


14. LIL YACHTY
“Let’s Start Here.”
(Motown / Quality Control)

Per presentare il suo quinto album in studio, il talentuoso “bubblegum trapper” di Atlanta aveva dichiarato “Volevo davvero essere preso sul serio come artista, non solo come un rapper di SoundCloud o un mumble rapper”. Sembrava una frase fatta e invece, sorprendendo tutti, ha regalato ai suoi fan e a improbabili estimatori un audace collezione di tracce soul dal taglio decisamente rock psichedelico. C’è da chiedersi se resterà una parentesi o una nuova strada di successo sulle orme degli ultimi lavori di Donald Glover a nome Childish Gambino.


13. SOFIA KOURTESIS
“Madres”
(Ninja Tune)

In “Madres”, il suo primo lavoro di lunga durata dopo una serie di EP e di singoli eccellenti iniziata ormai cinque anni fa, la peruviana Sofia Kourtesis spezza le reti di tutti i generi che, nel corso dell’album, attraversa, manipola e rifinisce. È un album che risente di tutte le influenze artistiche che hanno ispirato finora Kourtesis e del genius loci di Berlino, la città dove vive. Intriso di una produzione di una accuratezza maniacale e di una effervescente originalità, che siano registrazioni sul campo o beat onirici e avvolgenti fino ad arrivare all’interpolazione di “Me Gustas Tú” di Manu Chao in un brano politico come è “Estación Esperanza”, singolo uscito quasi due anni fa che già nel titolo cita il disco di Chao nel quale il pezzo è contenuto, “Madres” mette al centro tutta la maturità e tutta la versatilità di Kourtesis come compositrice e producer. Costruito intorno a un concetto di world music che ridefinisce e amplia quello che abbiamo avuto in testa fino a oggi, “Madres” è anche un disco che connette magistralmente e visceralmente l’intimo e il globale: tratta, infatti, sia temi di carattere universale sia questioni personali, essendo dedicato alla madre dell’artista guarita da una grave malattia e celebrando, forse, l’idea stessa di maternità e di madre-terra.


12. CAROLINE POLACHEK
“Desire, I Want To Turn Into You”
(Perpetual Novice)

Quella di Caroline Polachek, da una storia cosmopolita i cui riflessi sono anche oggi abbastanza evidenti, poteva diventare una storia comune a quella di decine di meteore indipendenti di un decennio fa o poco più che da una costa all’altra degli Stati Uniti si palleggiavano l’hype e la reputazione di next big thing. Invece nel suo caso non si può parlare solo di hype e immagine. Dopo la sua esperienza nei Chairlift, le sue collaborazioni nel mondo pop e hyper-pop e le sue hit ballate in ogni festival del globo, con “Desire, I Want To Turn Into You” è riuscita a portare a compimento una parabola synth-pop fresca e contemporanea grazie a un’ispirazione, un gusto e una propensione sempre viva alle contaminazioni e alle collaborazioni.


11. YVES TUMOR
“Praise a Lord Who Chews but Which Does Not Consume; (Or Simply, Hot Between Worlds)”
(Warp Records)

L’album è un mosaico poliedrico di generi e influenze, un’orgia di intuizioni ed idee che si mescolano in un’estasi neo-psichedelica di post-punk Wire-esco. “Praise a Lord” è un’antologia sonora in cui il sublime e il terribile si tengono per mano in una danza serpentina. La voce androgina di Sean Bowie emerge come una sirena in un mare di sintetizzatori, batterie elettroniche, ed enigmatiche sonorità darkwave. Nei momenti più teneri ci guida in un labirinto di delicatezza malinconica (“All the tears I’ve cried, I’ve learned to hide“), dove le sue note fluttuano lievi come un sospiro su uno sfondo di chitarre acide e glaciali.


10. LANKUM
“False Lankum”
(Rough Trade)

Nati nella brulicante scena di musica folk contemporanea irlandese, il quartetto dublinese giunge al quarto disco in studio e si consacra definitivamente come uno dei più interessanti gruppi contemporanei. Con “False Lankum”, la band riprende in mano vecchi tradizionali del patrimonio popolare celtico, ma li trasfigura, allargandone il respiro, rendendone più cupa la timbrica e inserendo sonorità e strumenti che poco hanno a che vedere con la musica folklorica dell’isola verde. Quello dei Lankum è un disco plumbeo, in costante bilico tra umano e naturale, dove violenza esoterica e remissiva dolcezza si uniscono in un affascinante tutt’uno; il folk si unisce alla musica sperimentale con gli arpeggi acustici che si increspano su ondate di bordoni drone. Difficile nominare qualche singolo episodio, dato che questo è il classico album da sentire tutto d’un fiato; ma già l’uno-due iniziale di “Go Dig My Grave” – dall’incedere grave e sinistro –   e “Clear Away In The Morning” – pensosa ballata dai toni soavi  –  mettono in chiaro la cifra stilistica di un disco capace di costruire un piccolo mondo acustico, da ascoltare con cura. 


9. ARMAND HAMMER
“We Buy Diabetic Test Strips”
(Backwoodz Studioz / Fat Possum Records)

Non sempre quando metti assieme due maestri del rap i risultati sono questi. Nel caso di Armand Hammer, esaltante progetto collaborativo di due guru incontrastati della scena rap di NYC come Elucid, nato a Jamaica, epicentro hip hop del Queens e cresciuto a Long Island e billy woods, rapper della capitale di origini zimbabwesi adottato da Brooklyn (dove ha messo le basi della sua label indipendente Backwoodz Studioz), non ci sono mai stati dei dischi deboli. “We Buy Diabetic Test Strips” è una raccolta fulminante di quindici tracce rap caleidoscopiche e incessanti, maledettamente East Coast, in grado di annichilire l’ascoltatore in cinquantatré minuti senza respiro.
Senza il successo eclatante di un altro album co-firmato da uno dei componenti del duo che troverete più avanti in classifica, probabilmente staremmo parlando di miglior disco rap del 2023.
Come se non bastassero i due geniali titolari del progetto, tra co-producer e collaboratori sbucano brano dopo brano JPEGMAFIA, Pink Siifu, El-P, Black Noi$e, DJ Haram, August Fanon, Junglepussy & Moneynicca dei Soul Glo, Moor Mother, oltre a Kenny Segal. Quando woods in “The Gods Must Be Crazy” dice “Henry Kissinger è l’unico featuring del mio album” , non dategli retta. Anche se Kissinger è appena scomparso e non abbiamo la controprova.


8. PJ HARVEY
“I Inside the Old Year Dying”
(Partisan Records)

È in un titolo di un brano e in quell’ossimoro (“rumore silenzioso”) il senso dell’ultimo “I Inside the Old Year Dying” di PJ Harvey, ed è la conclusiva “A Noiseless Noise”: nella citazione di Keats si racchiude il senso della decima prova della nostra, perché è un album che vive di contrasti, di rumore e di assenza di suono, di sfrigolii emessi da strumenti che non sono strumenti in senso rock classico quanto piuttosto tamburi primordiali, chitarre acustiche dal suono medioevale, un sferragliare di fabbri ancestrali, soffi cavernosi, risucchi costruiti come loop di case infestate. 


7. FEVER RAY
“Radical Romantics”
(Rabid Records / Mute)

“Radical Romantics” è un mosaico sonoro complesso, ma gratificante, che mostra la maturità emotiva e artistica di Dreijer. La varietà di riferimenti, tra electropop, post-industrial e dance music, si amalgama in un prodotto finale più orientato al pop di quanto ci si potesse aspettare. Questo non va visto come una regressione, ma assolutamente come una forma di movimento.


6. DAUGHTER
“Stereo Mind Game”
(4AD / Glassnote Records)

“Stereo Mind Game” è dream pop a tinte tenui e luccicanti nell’arco di una stessa canzone. È fatto di poesie sussurrate da Elena Tonra, come sempre cariche di potenza. Il paragone non sarà proprio immediato ma si può immaginare Suzanne Vega nascosta in qualche angolo di questo ambiente sonoro. Se questo terzo album rischia di essere il più bello dei Daughter, il merito è anche di un chitarrismo che sa restare semplice e solenne. E poi di questi ritmi, scarni anche quando i battiti sono elettronici.


5. RVG
“Brain Worms”
(Ivy League / Fire Records)

Forse è che in Australia si deve ancora sgomitare per arrivare al centro del mondo e c’è più convinzione quando si suona un indie-rock che è figlio del Paisley Underground mischiato con l’atonalità dei Placebo e la giocosità degli Avi Buffalo? Oppure è che là le cose arrivano un po’ dopo e quindi la miscela di ri-attualizzazione di una new-wave scarna degli ’80 con inserti indie-rock degli ’00 è un po’ naif? Una cosa è certa: come si fa a rimanere insensibili alla sferzata di vento caldo di canzoni come “Midnight Sun” e la titletrack “Brain Worms”? Come non riconoscere nella voce della lead-singer nonché chitarrista Romy Vager una duttilità estrema che si muove sul confine di una timbrica che non è né maschile né femminile?


4. WEDNESDAY
“Rat Saw God”
(Dead Oceans)

Karly Hartzman da Ashville, North Carolina guida una band abile a destreggiarsi in tutti i filoni dell’indie-rock, tra reminescenze di Smashing Pumpkins e Vic Chesnutt, ma che ha nella sua anima southern il vero tratto distintivo: storie drammatiche eppure quotidiane di “una ragazza che andava a scuola tre volte alla settimana per pisciare in strada il liquore” (“Chosen To Deserve”) o di “Georgie che ha bruciato acri di cotone provando un nuovo modello di razzi” (“Quarry”) mentre la musica incombe fragorosa arricchita da pedal steel; una ricetta che fa di “Rat Saw God” dei Wednesday una delle migliori istantanee del 2023.


3. BILLY WOODS & KENNY SEGAL
“Maps”
(Backwoodz Studioz)

Non sono solo The National a essere rappresentati da due dischi nella nostra top 20 del 2023. Con tutti i meriti del mondo billy woods, qui affiancato dal producer californiano Kenny Segal, si guadagna anche un piazzamento nel podio della classifica generale degli album grazie all’incandescente surrealismo conscious rap di “Maps”. Forse si potrebbe semplicemente parlare di rap con la erre maiuscola. E anche in questo caso non mancano le collaborazioni di lusso, da Danny Brown a Shabaka Hutchins, passando per Samuel T. Herring dei Future Islands, Quelle Chris, Aesop Rock, oltre ovviamente al suo compagno di Armand Hammer, Elucid. Il suono immortale della East Coast del nuovo secolo.


2. LITURGY
“93696”
(Thrill Jockey)

L’ultimo disco per Thrill Jockey della band che fa capo a Haela Ravenna Hunt-Hendrix è un impressionante monolite di 1 ora e 20 minuti di black metal trascendale. Oltre ogni genere e concezione, un disco in cui convivono delicati giochi armonici e blastbeat, canti in growl e polifonie corali. Esprimere la propria identità senza allinearsi a niente e nessuno, “93696” sublima il percorso di Hunt-Hendrix, consegnandoci un disco che attraverserà gli anni.


1. SUFJAN STEVENS
“Javelin”
(Asthmatic Kitty)

Potremmo anche non essere a conoscenza di ciò che Sufjan Stevens ha reso pubblico nel giorno in cui “Javelin” è uscito e di ciò che ha raccontato prima che il disco uscisse: che l’album è dedicato al suo partner scomparso prematuramente all’inizio di quest’anno; che lui sta combattendo per tornare a camminare dopo che gli è stata diagnosticata la sindrome Guillem-Barré che lo ha costretto alla sedia a rotelle. Il decimo album solista di Sufjan, che è per lui anche il ritorno alla forma cantautorale “classica” dopo otto anni e mezzo di collaborazioni, esperimenti, fughe e riapparizioni, raggruppa tutto il meglio che il cantautore ha saputo dipingere nei suoi migliori lavori del passato.
“Javelin” è un’angelica visione violata dal dramma e dalla solitudine. È insieme così umano e ultraterreno che è complicato seguirlo. Sotto una superficie (solo apparente) di melodie semplici, di arrangiamenti limpidi e di testi emozionanti e diretti ci sono una complessità e una profondità che non è facile cogliere, una tela di contraddizioni e di lotte che non si esauriscono solamente nell’apparato testuale del disco ma che vivono e si muovono dentro ogni singola nota e dentro ogni singola scelta.


Con il suo settimo album in studio, “Carrie & Lowell”, aveva trionfato nella nostra top 20 del 2015 battendo addirittura “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar.
Sufjan Stevens è l’unico insieme a Radiohead (2003 e 2007) e Low (2005 e 2021) ad avere prevalso in questa nostra classifica più di una volta.
Di seguito come da tradizione, i link a tutte le nostre classifiche dei migliori dischi dell’anno dal 2001 a quella dello scorso anno.


(la Redazione)

KALPORZ AWARDS HISTORY (ex Musikàl Awards):
Kalporz Awards 2022 (Rosalía)
Kalporz Awards 2021 (Low)
Kalporz Awards 2020 (Yves Tumor)
Kalporz Awards 2019 (Tyler, The Creator)
Kalporz Awards 2018 (Idles)
Kalporz Awards 2017 (Kendrick Lamar)
Kalporz Awards 2016 (David Bowie)
Kalporz Awards 2015 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2014 (The War On Drugs)
Kalporz Awards 2013 (Kurt Vile)
Kalporz Awards 2012 (Tame Impala)
Kalporz Awards 2011 (Fleet Foxes)
Kalporz Awards 2010 (Arcade Fire)
Kalporz Awards 2009 (The Flaming Lips)
Kalporz Awards 2008 (Portishead)
Kalporz Awards 2007 (Radiohead)
Kalporz Awards 2006 (The Lemonheads)
Kalporz Awards 2005 (Low)
Kalporz Awards 2004 (Blonde Redhead, Divine Comedy, Franz Ferdinand, Wilco)
Kalporz Awards 2003 (Radiohead)
Kalporz Awards 2002 (Oneida)
Kalporz Awards 2001 (Ed Harcourt)