PJ HARVEY, “I Inside the Old Year Dying” (Partisan, 2023)

Ho sempre amato gli ossimori, soprattutto nelle recensioni: discorrere di musica è un po’ un descrivere l’indescrivibile, per cui può essere utile aggrapparsi a concetti in contraddizione per arrivare a trasmettere una sensazione, una visione fugace che il recensore ha intravisto – o quantomeno ha creduto di scorgere – in quello che il cantautore ha voluto dire o ha sentito. E in un titolo di un brano che è anche un ossimoro si cela, a mio parere, il senso dell’ultimo “I Inside the Old Year Dying” di PJ Harvey, ed è la conclusiva “A Noiseless Noise”: nella citazione di Keats si racchiude il senso della decima prova della nostra, perché è un album che vive di contrasti, di rumore e di assenza di suono, di sfrigolii emessi da strumenti che non sono strumenti in senso rock classico quanto piuttosto tamburi primordiali, chitarre acustiche dal suono medioevale, un sferragliare di fabbri ancestrali, soffi cavernosi, risucchi costruiti come loop di case infestate. C’è un bel po’ di sentimento druidico in queste canzoni che sono scavate all’osso, scarnificate per lasciare in risalto le parole (è già stato detto tutto sulla vocazione del disco di essere una continuazione di “Orlam”, secondo libro pubblicato da Polly Jean lo scorso anno, con l’utilizzo di alcuni termini dialettali del Dorset), dove la voce della Harvey emerge a tratti quasi timida, non incerta ma come se non dovesse mai andare sopra le righe, alla ricerca del sentimento giusto per interpretare melodie che sono più preghiere laiche che linee pop, mentre alle volte si erge come unica luce guida in una foresta senza via d’uscita. PJ ha dichiarato al Guardian, in una delle poche interviste concesse in occasione di questa uscita, di aver lavorato molto sulla emozionalità della voce, cercando di non ripetersi rispetto al passato e trovando un aiuto nel consiglio del fidato Flood (che produce assieme a John Parish), e si sente.

In questa landa desolata la sua voce quindi o si intravede o si staglia davanti come punto di riferimento, ma soprattutto lascia trasparire un sentimento che – a mio parere – non è stato sufficientemente sottolineato nelle recensioni che sono state pubblicate: un olezzo di solitudine aleggia inesorabile nei silenzi e in quei suoni rupestri e campestri che sono la cifra stilistica dell’album, come se PJ fosse uscita da se stessa per raccontare il mondo in molti album, sia quando viaggiava in una NY notturna e scintillante in “Stories from the City, Stories from the Sea” che quando cantava delle guerre in Medio Oriente in “Let England Shake”, mentre ora si è rinchiusa in una difficile riappacificazione con sé che passa anche attraverso la poesia e la comprensione più profonda del territorio da cui proviene. In una sfida però in cui è inesorabilmente sola. In questo senso “I Inside the Old Year Dying” potrebbe essere considerato la continuazione con altri mezzi e con una consapevolezza di adulta maturità di un album doloroso come “White Chalk”. Qui Polly Jean non urla, non fa trasparire un dolore fisico quanto piuttosto la necessità di scendere a patti con i limiti della propria esistenza, tra l’incomprensione e la naturale accettazione che deve essere il fine conclusivo più equilibrato.

In un episodio si intravede quello che era PJ, ed è la title-track, ma è un fatto breve: in quel minuto e cinquantadue Polly Jean si butta a capofitto in quelle sfuriate in cui era solita sfogarsi (e deliziarci) ma lo fa sempre da una prospettiva frugale, con una chitarra spogliata di ogni forza deflagrante e, appunto, con una durata che pare dirci che se volesse potrebbe essere ancora la vecchia PJ Harvey, ma non è più quella persona e questa canzone va arrangiata così, oggi. È solo un episodio veloce, messo non a caso a metà dell’album, alla fine di un ipotetico “lato A”, per chiudere quel primo tempo, ma non è la canzone più importante. Il resto dell’album vive di quell’universo pagano e atavico che fu e a cui la Harvey si aggrappa per andare avanti, perché per capire definitivamente se stessa ha bisogno di partire da dove proviene.

È un album a cui accostarsi con rispetto, con intima convinzione e con il tempo giusto per farlo, perché qui la prospettiva è l’affastellarsi della vita, non l’evasione dalla stessa. Ma se lo si fa con questa predisposizione d’animo, è un lavoro in grado di svelare molte verità. Il che alle volte è – purtroppo per gli artisti – più facile per gli ascoltatori che per chi, in un modo magari psicanalitico, crea quelle opere d’arte. Chissà se PJ, nel farci intendere quelle verità, è riuscita a coglierle anch’ella. Sarebbe bello, perché vorrebbe dire che la prossima volta si spingerà ancora oltre.

79/100

(Paolo Bardelli)

foto in home di Steve Gullick fornita dall’ufficio stampa Spin-Go