SUFJAN STEVENS, “Javelin” (Asthmatic Kitty, 2023)

Mentre Javelin rotola pian piano verso la sua conclusione, Stevens riemerge dalle nebbie in cui la sofferente parte conclusiva di “So You Are Tired” lo aveva trascinato e giudica il percorso in cui tutti noi inevitabilmente procediamo come qualcosa che è per sua natura intrinsecamente tragico in tutto quel che ha da offrirci: «It’s a terrible thought / To have and hold», canta con realismo e con serena accettazione di ciò; mantiene un velo di tristezza nella voce e ci parla col piglio di chi sa bene quale epilogo ci attende. Il folk soffuso e onirico del brano che dà il titolo al disco, meno di due minuti sparuti ed essenziali che ci cullano e che ci proteggono coi loro arpeggi di chitarra leggerissimi, ci rende consapevoli del nostro destino senza ferirci mortalmente, consegnandoci una verità troppo ineluttabile per essere realmente digerita. Certamente si prova a comprenderla, si prova a spiegarla; la finitezza degli esseri umani, però, può arrivare soltanto fino a un certo punto.

Eppure i più grandi album di Sufjan Stevens – e Javelin entra di diritto, sin da subito e senza alcun dubbio, in quel gruppo – hanno tutti il grande merito di provare, impavidi e orgogliosi, di attraversare le colonne d’Ercole di questa incomunicabilità e (apparente) insensatezza dell’esistenza. Javelin non fa di certo eccezione. Come al solito Stevens prova a districarsi in questo compito ingrato non con la ybris dell’Ulisse dantesco ma piuttosto con la “disperata vitalità” di un Prometeo che disobbedisce a Zeus per una finalità superiore. Se cercare le radici di un dolore o le spiegazioni di un lutto è cosa spesso vacua, Stevens ha dimostrato di saperle raccontare, descrivere e combattere come pochi altri al mondo in musica. Fin dalla lacerante “Casimir Pulaski Day”, contenuta in Illinois, per tutto Carrie & Lowell e ora in ampi tratti di Javelin, scrivere e cantare di questi argomenti non è mai stato così liberatorio.

Potremmo anche non essere a conoscenza di ciò che Stevens ha reso pubblico nel giorno in cui Javelin è uscito, cioè circa dieci giorni fa, e di ciò che ha raccontato prima che il disco uscisse: che l’album è dedicato al suo partner scomparso prematuramente all’inizio di quest’anno; che lui sta combattendo per tornare a camminare dopo che gli è stata diagnosticata la sindrome Guillem-Barré che lo ha costretto alla sedia a rotelle. Alla luce di questi elementi – uno che ha contribuito a comporre i segmenti dell’opera, l’altro che ne ha involontariamente “accompagnato” l’uscita – Javelin assume significati ulteriori e si materializza davanti ai nostri occhi come una sorta di angelica visione violata dal dramma e dalla solitudine. È insieme così umano e ultraterreno che è complicato seguirlo. Sotto una superficie (solo apparente) di melodie semplici, di arrangiamenti limpidi e di testi emozionanti e diretti ci sono una complessità e una profondità che non è facile cogliere, una tela di contraddizioni e di lotte che non si esauriscono solamente nell’apparato testuale del disco ma che vivono e si muovono dentro ogni singola nota e dentro ogni singola scelta.

Il decimo album solista di Sufjan, che è per lui anche il ritorno alla forma cantautorale “classica” dopo otto anni e mezzo di collaborazioni, esperimenti, fughe e riapparizioni, raggruppa tutto il meglio che il cantautore ha saputo dipingere nei suoi migliori lavori del passato. «Take myself suffering as I take my vow», canta Sufjan nella sentita e corale “Will Anybody Ever Love Me?”, brano che per la sua potenza e per la sua schiettezza entra immediatamente nel canone dei classici del cantautore insieme a “So You Are Tired” e a “Shit Talk” e che è il sunto perfetto della tipologia di amore e di mancanza che Stevens canta in lungo e in largo nel disco. Un amore che, come avviene in tutte le relazioni, è polarmente diviso in momenti difficili e in momenti idilliaci, descritto nel suo srotolarsi quasi soprannaturale di fronte agli occhi di Sufjan. Ma è un sentimento umano, umanissimo, che, tuttavia, avvicina al divino chi ne viene sfiorato. La bucolica e romantica “A Running Start” pone le basi di un legame che, in modo bipolare, può essere solido come il cemento e può essere sottile come lo stelo di una rosa.

In “So You Are Tired”, un gioiello folk-pop che come “Should Have Known Better” è costruita a dittico con una prima parte più cupa e una seconda più speranzosa che, a differenza dell’episodio di Carrie & Lowell, sfocia però in una conclusione amara, e in “Shit Talk”, una sinfonia di colori e di confessioni che esplode in una polifonia prorompente prima di riavvolgere i suoi passi verso l’intimo folk dal quale si era mossa, la relazione che Stevens mette al centro di Javelin conosce forse i momenti più drammatici: «So rest your head / Turning back all that we had in our life / While I return to death», canta Sufjan avvolto da un mantello di tenebre, come uscendo di soppiatto dal portone di una casa che è stata sua per lungo tempo e che conosce negli angoli più privati e nascosti. «I don’t wanna fight at all», confessa poi in “Shit Talk”: non alza bandiera bianca ma quasi sfida a duello la morte e il tornado di sconquassi e di vuoto che porta dietro di sé. «Turning back fourteen years / Of what I did and said», afferma Sufjan in “So You Are Tired”, che inizia con un tranciante «So you are tired of us» e corre verso la conclusione con un più sottile «So you are tired of me». Non sono affatto banali i giochi ritmici e sillabici che Stevens costruisce in questo brano capolavoro, evidenti in una serie di passaggi cruciali che “mutano” «I was a man born invisible» nei successivi «I was a man indivisible» e «I was a man still in love with you», tutti versi pronunciati nella stessa posizione di strofa in differenti momenti, una climax a distanza che non è cosa immediata cogliere.

Il lutto, insomma, non è il tema principale di Javelin. È presente ovunque, è imminente, è mai sazio, invincibile, ma non è veramente al centro del disco, se non per brevi momenti. È l’amore, infatti, a prevalere: un amore che spesso è trattato come forza terrena che sa andare, però, al di là dello spazio e del tempo. La metafora prolungata del folk dalle vibrazioni spirituals di “My Little Red Fox” lo vede avanzare nei boschi, nell’aria, tra i sassi e tra i rami, imprendibile e libero; la stratificata “Goodbye Evergreen”, apertura dell’album, è un addio che assume i contorni dolcissimi e liberatori di un arrivederci: «I grow like a cancer», sussurra Stevens su una pioggia di note pianistiche che ben presto muta in un’esplosione di batterie, di chitarre, di synth e di voci, quasi come se volesse trasformare la malattia in qualcosa di non più mortale e maligno. Preghiere, sentieri di ricerca, sfoghi, pazienti sedute liberatorie: Javelin non si priva di nulla di tutto ciò. Si muove di soppiatto e umilmente come un pellegrino perdutosi in un deserto: prova a coltivare illusioni sfumate e lontane che non smette di cercare, desideroso di conoscere se esista o meno una via per la salvezza. «Now we dance in our catastrophe», ci ricorda in “Genuflecting Ghost”, dopo che nell’abbacinante “Everything That Rises” aveva chiesto di essere sospinto verso l’alto «to a higher plane». «Hold me closely, hold me tightly / Lest I fall», ripete, come in un salmo, in “Shit Talk”, prima di venire sommerso da un coro che ribadisce altrettante volte questa sincera speranza e prima del laconico «I will always love you» che sono anche le ultime parole che Stevens scolpisce nel pezzo.

Come è solito fare in quasi tutti i suoi lavori, anche qui Stevens ha arrangiato ogni brano e suonato quasi ogni strumento, se si escludono la partecipazione di Bryce Dessner dei National in “Shit Talk” e i cori così presenti e centrali in molti brani dell’album. Questi ultimi rendono ancor più polifonico un disco che persegue da un lato l’asciutta via di Carrie & Lowell, dall’altro il caleidoscopio massimalismo di Illinois e di alcuni dei recenti lavori di Sufjan. Ma Stevens è geniale anche per questo: affolla un disco sofferto e riflessivo di melodie celestiali, di voci ultraterrene, di elementi percussivi e talvolta anche di sintetizzatori che ti si appiccicano addosso e ti modellano. Nell’economia del disco, in questo equilibrio edenico così fragile e precario, assume contorni catartici anche il pezzo che lo conclude, una rivisitazione sin dalle sue radici di un brano di Neil Young contenuto in Harvest, “There’s a World”: Stevens pizzica le corde del suo strumento con dolcezza mentre lo interpreta come se fosse un gospel; modifica la tonalità, da minore a maggiore, e riempe il brano di un soffio intimamente personale e neanche tanto sorprendentemente speranzoso.

Nel distico di Young «All God’s children in the wind / Take it in and blow real hard» capiamo, forse, il motivo per cui Stevens ha deciso di interpretare proprio questo pezzo. Sembra di ascoltare qualcosa che è uscito direttamente dalla penna di Sufjan. È un tributo appassionato, certo, ma è soprattutto un modo originale di chiudere un disco come questo, profondamente personale e magistralmente stratificato che termina improvvisamente, con un secco accordo, e lascia tutto sospeso. Il pezzo calza a pennello a Stevens e all’habitat di Javelin, sigillando un opus magnum di cui si parlerà ancora.

84/100

(Samuele Conficoni)