Songs with other Strangers, concerto all’Hiroshima Mon Amour, Torino (22 ottobre 2010)

Tanti sono quelli che rispolverano il concetto di “supergruppo” per far cassa comune che è dura essere immuni dai pregiudizi contro le formazioni dalle molte teste. E allora diventa difficile anche raccontare un progetto come quello di Songs with Other Strangers senza farlo apparire come un’altra carovana di “vecchie glorie” che si celebrano da sole: il modo giusto per capire è andarsi a vedere un loro concerto perché a) sul palco tutti i nodi vengono al pettine e b) si tratta di un progetto itinerante e quindi oltre ad essere il migliore è anche l’unico modo per vederli in azione.
Cinque anni dopo il primo giro di date, i S.w.o.s tornano a girare l’Italia con un paio di innesti in più tra le loro fila: la locandina scrive guest star ma la dicitura corretta sarebbe “guest musicians”, perché di stardom qui non c’è proprio traccia. Provare, per credere, a tenere sott’occhio quel Manuel Agnelli che molti vorrebbero incorreggibile primadonna mentre suona nelle retrovie, chiedendo la ribalta per sé solo in un paio di occasioni – una Pelle meno urlata del solito e “Ballad for my little hyena”, riarrangiata e orgogliosamente anglofona. Oppure si badi a chi, se non altro per meriti storici, meriterebbe sul serio il titolo di indiestar: vedrete Steve Wynn, ultimo entrato assieme a Rodrigo D’Erasmo, accompagnare alla chitarra un blues di Cesare Basile in dialetto siciliano, chinarsi a raccogliere allo stesso Basile i fogli caduti dal leggio e finire anche lui nelle ultime file, a fare da corista per “Everybody Knows” di leonard Cohen.
E se trent’anni di storia del rock messi a fare i “coretti” vi sembrano una mortificazione imperdonabile si vede che non avete (ancora) sentito la versione collettiva della sua “Manhattan Fault Line”, o che non avete idea di quale fiorire di chitarre si sia scatenato durante il secondo bis su tema Nick Drake. Qualcosa da celebrare questa sera c’è, ma non è l’ego dei singoli nè i rispettivi repertori: è un suono, che – già dai tempi dei Dream Syndicate -ha superato la sbornia punk per riallacciarsi alla tradizione americana e diventare, da quel che si è visto, un esperanto per musicisti da tre diversi continenti. E poi c’è un’attitudine, quella del musicista che sa che molte teste sono meglio di molte facce, e che la musica la si suona tanto dietro il microfono quanto dietro le pelli, e pazienza per i primi piani. Un’attitudine che non è facile celebrare senza farle torto: anche in questo caso il palco resta il migliore e unico posto per farlo.

(Simone Dotto)

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(28 ottobre 2010)

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