LCD SOUNDSYSTEM, “American Dream” (DFA / Columbia, 2017)

Sembra ieri quando cercavo di propinare gli LCD Soundsystem ad amici e conoscenti poco avvezzi all’elettronica, spacciandola per tale. Dodici anni è cambiato poco, se non per i molti nomi di quel sound eclettico molto DFA finiti nel dimenticatoio, finiti a fare altro o finiti per sciogliersi, come The Rapture, i quali hanno lasciato con le mani in mano lo stesso Murphy, che stava lavorando al loro nuovo disco.
Il collettivo di James Murphy protagonista della nostra copertina di settembre, nonostante tutto, sembra essere rimasto uno dei pochi, o forse l’ultimo, in grado di accarezzare le corde dell’anima più nostalgica di chi segue la musica contemporanea e, i gusti più moderni di chi segue coordinate musicali più classiche e nostalgiche.

Nato con l’idea di rivisitare la disco, il funk e la dance con l’impatto punk e post-punk che l’avevano accompagnato nella sua carriera musicale degli albori molto underground prima di vendersi ai vizi del clubbing della Grande Mela, il progetto autocratico di James Murphy non ha mai sbagliato un colpo, dal dirompente doppio album d’esordio alla mezza impro di 45 minuti e 33 secondi scritta per la Nike come soundtrack ideale per una sessione di jogging. Passando ovviamente per il lavoro più compiuto, “Sound Of Silver”, dove ha messo in mostra, ancora più che nell’esordio, la sua abilità nello scrivere degli anthem con un gusto molto furbo ed efficace, e un’egregia produzione, a metà tra strada tra pista indie rock revivalist, synth-pop e andature sempre molto 80s e il suo figlioccio “This Is Happening”, dove gli LCD Soundsystem hanno perfezionato la forma canzone inquadrando le digressioni strumentali dance in un contesto per certi aspetti ancora più convenzionale. Poi è arrivata la fine del progetto che i più maliziosi avevano visto come un modo per capitalizzare al massimo gli incassi dell’ultimo tour con l’ultima data del 2 aprile 2011 al Madison Square Garden, immortalata in un live documentario. Dai racconti sarebbe stato Bowie, il cui fantasma aleggia nelle produzioni e nelle sonorità di “american dream” soprattutto nei dodici stranianti minuti di “black screen”, a convincere James Murphy a prendersi un break, in una fase di stress fisico e mentale non più sostenibile per un quarantenne arrivato molto tardi alla notorietà rispetto ai suoi omologhi della scena newyorchese.

Chi si aspettava una vera rivoluzione o da questo quarto capitolo della storia degli LCD Soundsystem, probabilmente non ha mai capito nulla sulla vera natura di questo progetto. Sono bastate “call the police”, sorellastra di uno dei brani più belli di Murphy e forse del decennio, “All My Friends” e la ballad sintetica che dà il nome all’album a chiarire bene le cose. Ci sono ovviamente i Talking Heads, i Simple Minds, c’è la wave, il post punk old school (non solo nell’esemplare “Emotional Haircut), l’eredità dei New Order, quella di Robert Fripp, la lezione dei Suicide, sempre ben impressi nell’immaginario e nel background degli LCD Soundsystem. E ovviamente quella di Bowie con cui James stava cercando di collaborare prima di gettare la spugna, e prima della prematura scomparsa di uno dei suoi idoli che aveva avuto la fortuna di conoscere nel corso della collaborazione intrapresa con gli Arcade Fire per “Reflektor”. E pare, tra l’altro, che James volesse coinvolgere anche Leonard Cohen, in questo nuovo album.

Ancora una volta, a rendere questo album qualcosa di più rispetto alle centinaia di copie conformi dei maestri degli anni Ottanta, ci sono soprattutto le canzoni, prima ancora della qualità della produzione, a dare un valore aggiunto al tutto. Basta fare play, godersi l’opening track “oh baby” per capire che, al di là di tutto, il loro stile anche a distanza di anni è inconfondibile, con quel sound smaccatamente DFA e la voce di Murphy che fa James Murphy senza ambire a fare altro. Come ha poi sempre fatto fin dal 2005 in poi. Gli LCD non hanno paura di andare oltre i cinque minuti, anche se non ci sono quei pezzi ballabili degli albori, eccezion fatta per un altro dei brani che avevano anticipato l’uscita del disco, quella “tonite” che in parte ci riporta al sapore degli LCD degli albori (forse uno dei momenti meno interessanti e a fuoco del disco), e all’etereo finale di “how do you sleep?” che però si muove da territori molto meno battuti dalla band.

Il disco continua certamente a suonare newyorchese, ma in maniera molto più contaminata rispetto in passato e non è un caso che le sessioni nate nel suo quartier generale dei DFA Studios, siano state completate tra Londra, Portland e Pennsylvania.

Non che ci fosse bisogno di una prova, ma gli LCD non fanno elettronica, almeno non in senso moderno. Continuano a non aver paura di usare chitarre, basso e una strumentazione molto ricca e tradizionale. In “american dream” tornano in primo piano quelle chitarre quanto mai nostalgiche e abrasive nella tradizione post-punk che hanno reso la band molto appetibile anche a un pubblico apparentemente distante dalla loro scena di riferimento. L’irrequieta “other voices”, la più eccentrica “change yr mind” e, a modo loro, la rievocativa “i used to” sono dei brani post punk dei nostri giorni, ormai lontani dalle andature dance-funk dei primi LCD. Di certo questo inaspettato, ottimo lavoro degli LCD Soundsystem mette in mostra la anima meno autocompiaciuta di Murphy, quella più contraddittoria, umana e sofferta, per certi aspetti fragile, quotidiana e oscura, se si prova a seguire i temi dei testi. Che sia davvero, come si evince dai testi e dal mood del disco, l’ultimo capitolo del “sogno americano” di uno dei progetti più significativi, e a loro modo, influenti del nuovo secolo, è ancora presto per dirlo, ma sembra assai preconizzabile.

Ciò che resterà di “american dream” è la perfetta sintesi del complesso ed efficace mix di ambizioni, influenze e paure che hanno segnato la vita e il percorso musicale di James Murphy. E di questi tempi, non è poco.

82/100

6 settembre 2017