JETHRO TULL, Stand Up (Chrisalis, 1969)

Alla seconda uscita i Jethro Tull – che presero il nome a prestito da un agronomo scozzese del XVIII secolo – realizzano la loro prima opera di grande valore. La formazione è a quattro, come sarà ancora per il successivo “Benefit”: l’istrionico cantante e polistrumentista (e non solo flautista) Ian Anderson, autore di qui in poi di tutti i brani del gruppo, vero padre e padrone della band, il chitarrista Martin Barre, il bassista Glen Cornick e il batterista Clive Bunker.

Che musica è dunque quella di “Stand Up”? Non c’è alcun dubbio che il punto di partenza sia il blues, con influenze folk. La struttura complessiva dell’album, comprensivo di dieci canzoni prive di architetture strumentali complesse, conferma questa diagnosi. Eppure… 1. Già la rilettura bachiana di “Bourée”, pur non costituendo metodologicamente una novità assoluta, e nemmeno il meglio dell’opera, ha un chiaro sentore progressivo. Simili operazioni, ma relative a Telemann e a Johann Pachelbel, venivano compiute in quegli anni anche da formazioni come i Moody Blues e gli Aphrodite’s Child, pressoché progressiva la prima, parzialmente accostabile al progressive la seconda. 2. Il massiccio uso del flauto da parte di Anderson, senza forse il massimo virtuoso di questo strumento in ambito rock, oltre a distinguere nettamente, fin dagli esordi, la musica del gruppo, contribuisce a legarla a quella dell’area progressiva. In questo caso l’obiezione potrebbe derivare dal fatto che l’uso del flauto praticato dal saltimbanco scozzese è complessivamente pù ad ampio raggio, più vigoroso e trabordante, meno melodico e più strutturale di quello praticato da altri flautisti del progressive. Ma questa è una verità che implica un arricchimento del rock progressivo, non un’esclusione di esso dall’orbita dei Tull. Il bello, per l’ascoltatore, sta proprio nel verificare la grande differenza fra il flauto di Anderson e, poniamo, quello assai più parco e semplice (ma non semplicistico) di Peter Gabriel.

Il ’69 è un anno cruciale per gli sviluppi successivi del rock inglese: è l’anno di “The Valentyne Suite” dei Colosseum e, soprattutto, di “In The Court Of The Crimson King” dei King Crimson, uno dei fondamenti del progressive. In questa situazione i Jethro Tull offrono la loro miscela di stili, che non è farraginosa o forzatamente cercata ma personale e unica nel suo genere. Oltre al flauto e alla chitarra acustica, presente in “Stand Up” non meno di quella elettrica, Anderson suona anche pianoforte, mandolino, balalaika e due tipi di organo elettrico: strumenti, soprattutto l’organo Hammond, largamente usati nel progressive. Non c’è ancora un vero tastierista di ruolo come sarà in séguito, a partire da “Aqualung”, e l’uso di questi strumenti è assai limitato; ma il dato ci pare comunque significativo. Atmosfere di sapore agreste e popolaresco, come in “Fat Man”, si alternano ad altre più decisamente rock; il lirismo e la pacatezza vengono spezzate da improvvise accelerazioni ritmiche. E non è forse progressivo un gioiellino di grazia e levità come “Jeffrey Goes To Leicester Square”? Non lo è forse il doppio, delicato flauto (il secondo suonato da Barre) di “Reasons For Waiting”, dove troviamo una sezione d’archi, arrangiata dal fedelissimo David Palmer? Qui abbiamo anche una delle parti vocali più belle dell’album, evocativa e di grande respiro.

L’ultimo brano, “For A Thousand Mothers”, è una sarabanda di flauto, basso e batteria, con pochi interventi chitarristici: bellissimo e trascinante il finale dove, dopo poche pause di silenzio ingannatore, viene ripreso l’attacco di batteria iniziale, seguito da una struttura ritmica simile a quella principale ma dai toni (specialmente grazie al flauto) più distesi e allegri.

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