BRAINBLOODVOLUME No. 12

“I AM HE AS YOU ARE HE AS YOU ARE ME, AND WE ARE ALL TOGETHER.”

John Lennon (1940-1980)


POPERA COSMIC, “Les Esclaves” (Finders Keepers, 2018)

Esce il prossimo settembre questo incredibile ripescaggio della Finders Keepers. L’ennesimo dell’etichetta francese. Questa volta tocca al primo e unico LP del progetto Popera Cosmic e considerato praticamente il vero e proprio pilastro della scena psichedelica francese. “Les Esclaves” (1969) è praticamente l’opera di un combo di musicisti fondamentali per la scena francese di quegli anni e di quelli che seguiranno: Francois Werthimer (compositore anche per Vangelis), Guy Skornik (l’uomo dietro le musiche dei lavori cinematografici di Jodorowsky), il tastierista William Sheller (Lux Aeterna) e Paul Piot (collaboratore di Jean Rollin), il suonatore di sitar Serge Franklin… Potremmo idealmente paragonare questa esperienza a quella italiana del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza (GINC) anche se poi i risultati sono per quanto sperimentali di stampo differente. Qui il risultato finale è una specie di opera cosmica psichedelica dai contenuti teatrali e dove la musica progressive incontra suggestioni rock and roll acide e stranezze Os Mutantes. Senza dimenticare chiaramente le influenze autoctone, il marchio della canzone francese pop e qualche impronta yé-yé che pure rinnegata da un gruppo di compositori di musica alta, in fondo si sente comunque.

Potremmo persino parlare di funk cosmico. Pezzi come “Filmore-Batman”, “Etreinte Metronomique”, “Poursuite” sono pezzi che hanno una componentistica jazz sperimentale e all’avanguardia, quel tipo di sound che negli anni settanta diventerà tipico di tutta una serie di colonne sonore e che oggi è ritornato in voga e riproposto in maniera forse anche massiva e ripetitiva (vedi Calibro 35) anche se qui ogni passaggio ha qualche cosa di imprevedibile e di magico e persino di curioso, misterioso come i suoni di “LSD” e la ballads “Ambiance” (un vero e proprio classico). Spuntano quindi le suggestioni “The Wicker Man” con il folk celtico progressive e visionario di “Philadephie Story”, il tropicalismo Os Mutantes di “Le chanson du Lievre de Mars”, la psichedelia Syd Barrett di “Aurore Cosmic” (con il massivo contributo al sitar del già menzionato Serge Franklin), le sublimi orchestrazioni che si ripropongono qua e là e si cristallizzano senza tempo in un pezzo colossale come “Metropolitain”. Delude in tutto questo solo il rock and roll banale di “Indicatif” che è veramente troppo banale se confrontato a tutto il resto del repertorio.

In definitiva “Les Esclaves” è un disco sicuramente dal sapore vintage, i suoi suoni sono chiaramente ambientati in quella dimensione psichedelica di fine anni sessanta e oggi ci arrivano qui da lontano tanto nel tempo quanto nello spazio. Eppure oggi c’è tanta gente che continua a ascoltare roba di quegli anni più diffusa a partire da Beatles oppure i soliti Pink Floyd e Syd Barrett, per non menzionare gruppi che cercano in maniera forzata di riprendere questo tipo di suoni: ogni tanto vale la pena di farlo invece un tuffo nel passato e in questa dimensione che poi è senza tempo e eterea, “fatale”. Alla francese.


THE MYRRORS, “Borderlands” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)

Annunciato con un mese d’anticipo dalla “Fuzz Club Session” ecco il nuovo LP di inediti dei Myrrors, il gruppo capitanato da Nik Rayne e proveniente da Tucson, Arizona e che si succed
e di pubblicazione in pubblicazione battendo – come dire – il ferro finché è caldo, anzi caldissimo, come dimostra il crescente seguito, che però qui è veramente giustificato perché questo gruppo continua a superarsi ogni volta e si può considerare a questo punto come staccato dal filone neo-psichedelico e ha oramai valicato ogni confine e possibile definizione di genere. Il disco in effetti si intitola “Borderlands”, lo pubblica la solita piccola grande label Beyond Beyond Is Beyond Records e si può considerare idealmente ambientato in quella che definiamo come terra di frontiera, una dimensione che nel caso dei Myrrors si può dire faccia parte del loro dna, sono pochi i chilometri che del resto separano Tucson dal confine messicano, ma che in questo caso per i suoni assume un carattere universale e affronta idealmente una casistica che costituisce la vera grande sfida della nostra generazione e delle generazioni a venire per quello che riguarda gli equilibri sociali e economici del mondo in cui viviamo.

Oramai i Myrrors sono un complesso collaudato di drone psychedelia e quello che si può definire come vero e proprio avant-jazz, se dovessi definirli facendo dei paragoni, li collocherei in una terra di mezzo tra Master Magicians of Joujouka, The Ex e Ennio Morricone, peraltro ampiamente omaggiato nel precedente LP “Hasta La Victoria”. La formazione completata negli anni oggi si avvale al di là del genio compositivo di Nik Rayne, di due musicisti eccezionali come Grant Beyschau e Miguel Urbina, figure eclettiche e capaci di disimpegnarsi nel suono di diversi strumenti e che hanno arricchito il suono di questo ensemble portandolo a un livello altissimo e dove peraltro questa “varianza” non costituisce la mancanza di un continuum nelle composizioni del disco, ma un potente collante energetico e che tiene unito avant-jazz noise (“Awakening”, “Call for Unity”), forme di sciamanesimo drone (“The Blood That Runs The Border”), loop ossessivi e allegorie con reminescenze di suoni provenienti dalle profondità dell’Amazzonia (“Formaciones Rojas”), contaminazioni nel bilico tra venerazioni per la musica indiana e sonorità mediorientali (“Biznagas”) fino alla deflagrazione cosmica dei venti minuti di “Note From The Underground”.

Il suono della viola di Miguel Urbina e dei fiati di Grant Beyschau, le sezioni di hamonium e strumentazioni come il bouzoki da parte di Nik Rayne fanno sì che questo disco rappresenti non solo la terra di confine tra Stati Uniti e Messico, ma che in una fase storica così complessa e in cui il continuo restringersi del nostro pianeta, l’aumento all’eccesso del divario sul piano economico tra il nord ed il sud, hanno spinto tutti gli abitanti di quella parte povera a muoversi in massa come mai l’uomo aveva fatto forse sin dalle origini del tempo. È una rivoluzione dettata da ragioni di natura economica e sociale, è una storia tragica come è tragica la storia dell’intero genere umano e una questione da affrontare tutti assieme abbattendo ogni muro e ogni frontiera fisica quanto culturale e per dare vita a una nuova era dove tutte le nostre storie, separatesi millenni fa, adesso possano ritornare a intrecciarsi tra di loro. È l’inizio difficoltoso di un lungo cammino e di cui questo disco costituisce la colonna sonora e senza nessuna retorica, colora la realtà di visioni e profumi che abbiamo sempre tenuto dentro e senza saperci spiegare perché.


ALPINE DECLINE , “Return To Desolation Lake” (Maybe Mars, 2018)

Penso che questa sia la prima volta che introduco in questa rassegna la sempre più florida e attiva scena musicale che nella città di Pechino in Cina si sta sviluppando attorno al mondo della label Maybe Mars. Lo faccio parlando dell’ultimo disco degli Alpine Decline, che sono poi forse la realtà che più tra tutte ha finota ottenuto riscontri al di là dei confini segnati dalla grande muraglia. Sebbene vada detto che la città di Pechino e il movimento creatosi attorno alla Maybe Mars non rappresentino ovviamente quella che è la realtà musicale in Cina oggi, ma penso si possa dire lo stesso per quanto riguarda l’Europa di etichette come ad esempio la Fuzz Club oppure la Rocket Recordings, sarebbe assurdo pensare per qualsiasi realtà “indie” a un fenomeno di massa come la Sub Pop Records: è stato e resta qualche cosa che non si verificherà probabilmente mai più nella storia della musica.

Ad ogni modo gli Alpine Decline sono un duo composto da Pauline Mu e Jonathan Zeitlin. Sebbene provenienti da Pechino e legati alla Maybe Mars, la storia musicale degli Alpine Decline comincia e si sviluppa interamente a Los Angeles, ma questo disco “Return to Desolation Lake” nasce solo negli USA e viene completato invece in Cina con la collaborazione di un altro dei nomi più rappresentativi della scena pechinese, cioè il producer Yang Haisong (PK14) che qui nel disco suona anche il basso (ma dal vivo lo strumento sarà suonato da Wen Yuzhen dei Birdstriking). Il risultato è un disco molto piacevole e che combina atmosfere psichedeliche con una estetica indie e suoni shoegaze (“Lies To Protect You”…) e slowcore. La maggior parte delle canzoni è del resto costruita su arpeggi ipnotici e allo stesso tempo orecchiabili e che danno vita non tanto a una dimensione ossessiva quanto a ballate che sono una specie di “ninna nanna” in cui cullarsi nell’ascolto (“Blameless”, “Peace In The Present Tense”), fino a improvvise accelerazioni con un piglio che ricorda la ispirazione Sonic Youth più pop (“Dispatch…”, “Float On A Balloon”) e che possono culminare in una certa tensione drammatica e che giustifica secondo me l’accostamente con i Low (del resto la formula “duo” di Alan Sparhawk e Mimi Parker con l’aggiunta di un bassista, viene qui riprodotta fedelmente) del primo periodo e più elettrici in un disco che comunque mantiene le stimmate del genere psichedelico ma che ha evidenti connotati indie che forse potrebbero aprire finalmente le porte per un maggiore successo a questo duo e magari scoperchiare in occidente il vaso di pandora dell’intero mondo della Maybe Mars.


GOSH!, “Odyssey” (Nicey Music, 2018)

È stato definito come minimalismo psych e se consideriamo che la definizione si è accompagnata anche a gruppi come i Suicide di Alan Vega e Martin Rev (che mi sembrano in qualche maniera sicuramente uno dei punti principali di riferimento di questo progetto) diciamo che allora questa catalogazione calza pure a pennello. GOSH! è un nuovo progetto musicale di base a Chicago nell’Illinois e formato da Padraig Steadman e Claire Lambache. Il disco si intitola “Odyssey” e metaforicamente è stato presentato come una specie di viaggio e che a questo punto consideriamo sia simbolicamente come quello dell’Ulisse classico di Omero quanto quello di Joyce e che si dipana attraverso le pieghe della mente. Anche se poi in un disco che è costruito fondamentalmente su loop sintetici come questo qui, come si fa a non pensare anche al mitico ARP Odyssey, il cui suono inconfondibile costituisce un mito che si rinnova nel tempo sin dagli anni settanta.

Chiaramente orientato verso sonorità cupe e che possono rimandare a esperienze dark-wave a partire da quelle più popolari e conosciute come i Joy Division, “Odyssey” è letteralmente costruito su sezioni di drum-station e loop ossessivi nello stile Suicide e in cui sferragliate di chitarre che stridono come freni sull’asfalto, campane tibatane, mantra rituali e “linee” gotiche, ci accompagnano in questo viaggio cullati da una voce e una recitazione che ricordano in maniera inevitabile la solita Nico. Al centro domina la lunga sessione di nove minuti di “Crater”, che simboleggia un po’ l’intera opera, che sebbene offra spunti interessanti, è secondo me troppo ancorata a schemi oramai obsoleti e usurati e che sono per propria natura ripetitivi e qui ripetuti in forme di synth-pop oscuro e psych minimalista, quasi glaciale che alla fine non sembra poi così spontaneo come un po’ tutte queste forme musicale che danno sempre un’idea di qualche cosa di adolescenziale e in un viaggio cerebrale e una specie di seduta psicoterapeutica che non va a buon fine perché ancora alla fine si tende a celare poi quelle verità che ci sono ancora sconosciute oppure che non vogliamo rivelare.


LAS ROSAS, “Shadow By Your Side” (Greenway Records, 2018)

A volere descrivere questo disco di pop rock psichedelia uscito su Greenway Records lo scorso maggio, userei due sole parole: sicuramente efficace. Il principale punto di riferimento: secondo me la garage psichedelia beat anni sessanta-settanta e tra le band più recenti The Dandy Warhols. Se non altro per una certa apparente sfacciataggine. Anche se il disco suona in una maniera più fresca degli ultimi lavori di Courtney Taylor-Taylor e compagni, centrando il bersaglio usando schemi sicuramente consolidati ma che si rivelano proprio per questo come sempre funzionali alla riuscita del piano complessivo. Il gruppo sono i Las Rosas, gruppo di stanza a Brooklyn, NYC, formato da Jose Boyer, Jose Aybar, Christopher Lauderdale e “Shadow By Your Side” è il loro secondo LP, registato tra Nashville e New York City in una fase che il gruppo ha definito di grande cambiamento e che ha voluto rendere graficamente sulla cover dell’album con una vista sul pianeta Venere nella sua fase crescente.

Uscito pure nella simpatica edizione limitata su cassetta della Burger Records e anticipato dal 7″ “Christa”, il sound del disco ha quella tipica componente pop-rock psichedelica garage e con venature glamourous e accattivante Dandys che si evidenzia chiaramente in una serie di pezzi facili ma orecchiabili e costruiti su arpeggi elettrici e tastiere vintage, sonorità beat ballabili e visioni psichedeliche colorate e caleidoscopiche. Viene da pensare a una versione accelerata e elettrica di Jacco Gardner come alla rivisitazione di un certo Lou Reed prima maniera filtrato attraverso il sound patinato Strokes. Che significa che tutto è molto “catchy” e per quanto garage, pure molto pop e proprio per questa devozione al suono anni sessanta-settanta si fa ascoltare facile e perché non richiede nessun adattamento a qualche cosa di inedito. Sinceramente consigliato se vi piacciono quel tipo di suoni rock and roll ballabili e quelle immagini a cerchioni colorati e con le ragazze bionde con quei parrucconi vecchio stile in disco.


THE REMAINS, “Live 1969” (Sundazed, 2018)

Non lo definirei un momento nostalgia, perché sono nato nel 1984 e l’esperienza dei Remains, gruppo rock and roll di Boston, Massachussetts, capitanato da Daniel Tashian (figlio di Barry e Holly Tashian, popolare duo di musica country, folk e bluegrass e oggi frontman dei Silver Seas), fu breve. Durò appena due anni (prima di ricominciare a suonare assieme alla fine degli anni novanta, nel 2002 hanno pubblicato anche un disco di inediti) e ebbe il suo massimo momento di gloria nel 1966 quando aprirono per una data dei Beatles nel loro storico ultimo tour.

La storia dei Remains è simile a quella di molti altri gruppi garage e rock and roll di quegli anni: i quattro componenti del gruppo (Barry Tashian, Bill Briggs, Vern Miller e Chip Damiani) venivano da diverse parti degli USA e erano tutti a Boston per studiare all’università; in breve cominciò a ottenere una certa popolarità in tutto il New England (Peter Wolf considera il gruppo come quello fondamentale per la nascita del rock and roll a Boston) e nel 1966 proprio poco prima dello scioglimento del gruppo (che curiosamente avvenne proprio causa dissidi in occasione della opportunità di aprire per i Beatles) pubblicò su Epic un LP eponimo contenente nove inediti (tra cui il singolo “Don’t Look Back” scritto da Billy Vera) e la cover di “Diddy Wah Diddy” e dalla critica considerato come una specie di compromesso tra i Beatles e il sound degli Zombies.

Praticamente dal nulla la Sundazed caccia oggi fuori questo live registrato al Boston Tea Party nel 1969. Il gruppo suona dal vivo “Hang On Sloopy” dei McCoys, “Route 66” di Bobby Troup nella storica versione incisa da Nat King Cole, “All Day and All of the Night” (The Kinks), “Like A Rolling Stone”, “Johnny B Goode”, “She’s Nineteen Years Old” (Muddy Waters), un medley composto da “La Bamba” e “Empty Heart”, “Diddy Wah Diddy” e un classico per il repertorio del gruppo come “Why Do I Cry”.

Difficile dare un senso a questa registrazione al di fuori di quel contesto preciso, però forse a un certo punto meglio ascoltare questi gruppi dal vivo che su disco, se non altro per calarsi veramente in una certa dimensione tipica di quegli anni e poi in fondo per un rock and roll e garage blues non c’è situazione migliore dei live in posti non troppo grandi e dove la stessa dimensione ridotta del palco ti costringa a mettere veramente in gioco te stesso proprio nell’adattamento a quegli spazi, Keef lo ribadisce a ogni occasione e se lo dice lui…


ALAMEDA 4, “Czarna Woda” (Instant Classic, 2018)

Jakub “Kuba” Ziolek è uno dei musicisti più cervellotici e allo stesso tempo interessanti nel panorama europeo degli ultimi anni. Polacco, classe 1985, titolare di diversi progetti (impossibile non menzionare Stara Rzeka…) e gestore della label Instant Classic, negli ultimi anni si è per lo più dedicato al progetto Alameda, con il quale ha rilasciato diverse pubblicazioni e dando di volta in volta una denominazione differente a seconda del numero dei componenti che lo hanno accompagnato nelle diverse occasioni. Nel caso di questa pubblicazione la formazione è composta da quattro elementi (Alameda 4) tra cui troviamo il sui storico collaboratore Mikolay Zielinski, il chitarrista Krystzok Kaliski e il batterista Tomasz Popowski. Il disco si intitola “Czarna Woda” (Instant Classic) e sebbene i collaboratori di Kuba siano sempre elementi di prima scelta e coinvolti in tutto e per tutto nel progetto, questo come negli altri casi gira per lo più attorno al suo genio compositivo e chiaramente la solita partnership di Zielinski. Dopo quella che possiamo definire una specie di “pausa” oppure un diversivo nel percorso Alameda, cioè “The Luminois Guitar Craft” in cui il duo si era disimpegnato in una rivisitazione del patrimonio musicale dell’antica Grecia sulle orme del lavoro del musicista contemporaneo Christodoulos Halaris, qui si ritorna a pieno titolo in quella dimensione rock psichedelica avanzata e che perde rispetto al passato di quella componente alchemica e misteriosa nello stile di Julian Cope per immergersi completamente in una dimensione di carattere mastondontico.

Un disco di composizioni cerebrali e complesse che possono per questo loro carattere ricordare grandi gruppi del passato come i Pink Floyd più che determinati compositori minimalisti, così come alcune espressioni della corrente definita a suo tempo come post-rock. Più che visioni spaziali in questo caso ci troviamo davanti a lunghe sessioni di musica drone e rock psichedelica avvolgenti e dense come le onde del mare in tempesta, la componente noise non si districa tanto in visioni astratte quanto invece in una specie di trionfo sinfonico, fanfare, parate di elefanti e manierismi di cultura ellenista in un pantheon ideale dove si congiungono le culture dell’Europa centrale con quelle del Medio Oriente e dell’India. A tratti etereo, quasi celestiale, il suono non cala mai di intensità, ma al contrario in una alternanza tra accelerazioni psych-rock e fasi più meditative e ambient, mantiene sempre alti i toni. Quello che manca tuttavia, rispetto al passato, è forse una certa tensione e un certo pathos che qui sono forse secondari rispetto a quello che ho definito come una specie di manierismo; forse c’è poco istinto e molto studio, molta dedizione in questo lavoro e questo è un merito che va riconosciuto a un musicista e compositore di cui non a caso ho voluto tessere le lodi (e di cui consiglio il ripescaggio dei lavori precedenti), ma se dovessi dare un voto definitivo a questo disco, non lo metterei tra le mie uscite preferite di quest’anno. Anche se… Anche se a chi piacciono determinate sonorità rock psichedeliche con tendenze al progressive e quelle session post-rock più avvolgenti e meno in slow-motion, questo disco penso che piacerà sicuramente e potrebbe magari essere la chiave per entrare in un nuovo mondo apparentemente poco conosciuto della scena musicale contemporanea.

Emiliano D’Aniello