MY AWESOME MIXTAPE, How Could A Village Turn Into A Town (42 Records, 2009)

Approdano al secondo album i bolognesi My Awesome Mixtape, dopo l’ep (in formato audiocassetta!) in tiratura limitata di quest’estate “Other Houses” (tre inediti e un paio di remix, tra cui l’irresistibile “Me And The Washing Machine”, inclusa anche nel disco nuovo). Registrato con l’aiuto di Bruno Germano dei Settlefish, e con una line up sensibilmente diversa rispetto al primo disco (stabilizzatasi ora in un quintetto), “How Could A Village Turn Into A Town” restituisce l’immagine di una band cresciuta enormemente sotto il profilo compositivo, con solidissime ambizioni internazionali (l’album viene distribuito anche in Germania, Austria e Svizzera) e un suono estremamente riconoscibile.

La chiave di volta rimane quella di un pop elettronico dal retrogusto casalingo, intriso di inguaribile romanticismo tardo liceale e di un malinconico guardarsi la punta consumata delle scarpe che sa però alzare lo sguardo verso il cielo stellato e la complessità di una vita che cresce col passare del tempo. Le maggiori novità vanno cercate soprattutto nella coperta ricamata di suoni guizzanti e vivaci intuizioni stilistiche con cui vengono fasciati gli arrangiamenti delle nuove canzoni. Fiati, archi, mobilissime reveries ritmico-elettroniche, tutto concorre a disegnare un elogio tascabile, svagato e intelligente della leggerezza più pensosa in forma di piccola città invisibile calviniana, tutta da esplorare nella sua ramificata planimetria musical-concettuale.

Con un occhio ai Postal Service e l’altro ai Junior Boys (ma anche a Why?, Notwist e Yacht), i My Awesome confezionano così un lavoro curato che si presta a situazioni diverse: dalle atmosfere più contratte ed evocative di “Inner City” e “Mia Farrow” al melodismo epicamente esplosivo di “Me And The Washing Machine”, passando per la costruzione più complessa e slanciata di “Teenage Parties End In Tears” (con passo tra il western più cinematografico e la tragedia agrodolce) e le tipiche scaglie di brina indietronica in cadenza simil hip-hop di “How The Feet Touch The Ground”.

La prova del secondo album (che è sempre il più difficile nella carriera di un artista, secondo la mirabile retorica caparezziana) appare dunque superata senza che il meccanismo della band rimanesse invischiato in ovvie ripetizioni del già noto, aggregando interessanti elementi ad una tavolozza sonora che sa ormai spostarsi con discreta agilità da coloriture vagamente avant-jazz-pop ad altre più elettro-hip-hop. La stoffa c’è insomma e sufficiente per cucire un bizzarro mondo di invenzioni piacevolmente bislacche in formato canzone. Continueremo a sentir parlare di loro.

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