Le città dell’universo musicale di Dieci. Un dialogo con Roberto Grosso Sategna

Dieci è il nuovo progetto musicale di Roberto Grosso Sategna, polistrumentista piemontese da tempo adottato da Bologna, già titolare del progetto weird-pop Ten Dogs e membro dei gloriosi Drink To Me insieme a Marco Jacopo Bianchi ai più noto oggi come Cosmo che ha accompagnato insieme a Mattia Boscolo negli ultimi tour. Dieci sono anche i brani di “Vitamine”, disco d’esordio uscito su 42 Records, mixato e masterizzato da Andrea Suriani (I Cani, Cosmo, Salmo…) dove la tradizione d’autore italiana si fa multiforme e globale con sonorità brasiliane, electro-pop, french touch e contaminazioni centro-americane e reggaeton (avete capito bene!).
“Vitamine” è un disco intimo che riesce a essere esuberante e fruibile anche al di fuori delle quattro mura domestiche in cui siamo costretti da più di un anno. Il viaggio e la contaminazione sono tra i punti di forza della ricerca musicale di Roberto Grosso Sategna e non potevamo che ripercorrere il suo percorso artistico a partire 7 luoghi – o meglio 7 città – che lo hanno in qualche modo segnato. Un viaggio che parte dall’isolamento delle montagne piemontesi e finisce nel bar sotto casa di Romano Prodi.

Vorrei iniziare questo viaggio spazio temporale partendo dai luoghi che non conosco e in un certo senso mi hanno incuriosito. INGRIA è un’antica regione svedese, ma anche un piccolo paese del Piemonte. Immagino tu ti riferisca al secondo…
Ingria è un paesino di 44 abitanti sperdute sulle montagne sopra Ivrea. Un giorno ero lì al fiume con degli amici e la mia ragazza di allora (svedese) che aveva portato un ukulele. Era l’estate del 2009. Mi sono messo a suonarlo per scherzo e ho avuto come una visione: ho detto, cazzo, voglio fare il cantautore, scrivere canzoni mie con l’ukulele e chiamarmi Ten Dogs, come fosse nome e cognome. Mi ricordo perfettamente che nel momento in cui ho scelto il nome non sapevo davvero da dove fosse uscito. Comunque è andata così. Alla fine ho scritto davvero delle canzoni e iniziato a girare facendo concerti. Oggi mi chiamo Dieci perché per me questo progetto è la prosecuzione di quel momento lì.
Ho sempre considerato l’ukulele lo strumento del demonio. Non so se concorderai con me e se hai anche te i altri strumenti o idiosincrasie particolari. Ti considero un artista abbastanza eclettico e sono curioso di sapere cosa escluderesti di suonare di qui alla fine della tua – si spera lunga – carriera musicale. Mai dire mai, ma fino a un certo punto, ecco.
Forse la tromba. Non mi è mai piaciuta troppo, così squillante, così militare. Certo, se la suona Miles Davis è una manifestazione del divino e anche i Neutral Milk Hotel, che sono probabilmente il mio gruppo preferito, la usavano. Ma suonarla io non mi ci vedo.
Non bisogna avere paura di fare pop e ho molto apprezzato questa libertà espressiva, in “Vitamine”. Non è facile di questi tempi nel paese dell’eterno revival provare a guardare al presente senza temere di fare pop in italiano. Una libertà espressiva che già emergeva nel progetto “Ten Dogs”. Che rapporto hai oggi con la fase Ten Dogs? 
Sono molto fiero di quel progetto, molto meno fiero di come l’ho abbandonato malamente ai tempi, lasciandolo lì, perdendo un po’ la voglia di portarlo avanti in modo più focalizzato. Però ai tempi soffrivo moltissimo l’avere un progetto solista, senza band. Girare in tour da solo richiede una forte dosa di sicurezza di sé e dei propri mezzi, soprattutto se suoni un ukulele cantando canzoni in inglese davanti a un pubblico che non ti caga perché in generale non è neanche lì per il concerto ma solo per la serata dopo. Almeno in una band si divide la presa a male! Quindi quando ho avuto la possibilità di suonare in un gruppo, non ci ho pensato due volte a mollare le mie canzoni per fare musica insieme ad altri. Mi ci sono voluti molti anni per ripensarmi come autore e cantante.

Parlando di idiosincrasie, seguendoti e leggendo di te, sei tra i pochissimi musicisti italiani legati a un background indie che non scredita il reggaeton. E anzi lo considera tra le sue ispirazioni (cosa che in un certo senso si respira nel tuo percorso come DIECI). Per caso PORTORICO, che è un altro dei 7 luoghi che hai segnato tra le coordinate di questo viaggio, ha a che fare con il sound centramericano?
Non sono mai stato a Portorico ma per me in qualche modo rappresenta un Altrove ideale, e soprattutto sono un grandissimo ascoltatore di reggaeton. Credo che mi piaccia così tanto per una forma di polarità: è il musicalmente Altro-da-me per eccellenza, mi affascina perché lo percepisco così distante che in qualche modo compensativo lo “desidero” come vicino. Un’analisi psicologica che renderebbe molto fiero Lacan!
Anch’io personalmente sono affascinato da quel sound e ogni volta combatto per fare capire che considerare il reggaeton la paccottiglia che esce in radio sarebbe come ridurre a PUNK il punk radiofonico degli anni Zero (che detesto). Consiglia qualcosa a chi ti leggerà e potrebbe finalmente ricredersi. 
Rosa Pistola, Ms Nina, Florentino, Costa Gamberro. Tutti artisti che non sono portoricani tra l’altro! Ma non so se si ricrederanno però: il partito anti-reggaeton solitamente è molto fermo sulle proprie posizioni.

Anch’io subisco tuttora una fascinazione per la Svezia. Proprio nel 2008-09 ho fatto l’Erasmus lì (per l’esattezza nel sud, a Lund quindi spesso e volentieri andavo a fare serata nella più vicina Copenhagen o a Malmo) e ho anche curato su Kalporz una rubrica (IKEA-POP) per parlare delle novità musicali di quella scena a dir poco florida che dall’hardcore all’indie passando per il pop e l’house è sempre stata al passo coi trend internazionali. 
Ci hai segnalato STOCCOLMA: ci hai vissuto? Ci vorresti vivere? 
C’è stato un periodo in cui avevo un orizzonte personale di amicizie e relazioni davvero internazionale. Tra Erasmus, corsi all’estero, viaggi ero quasi sempre da qualche parte fuori dall’Italia per periodi più o meno lunghi. In particolare ci sono stati anni in cui andava davvero spesso in Svezia e avevo moltissimi amici lì. A Stoccolma pensavo di trasferirmi. Anche oggi se parlo in inglese mi dicono che ho un accento svedese. E lì è anche dove ho visto dal vivo quello che era il gruppo preferito della mia post-adolescenza, gli Herman Dune.
Incredibili. Altri nomi “sconosciuti” svedesi secondo te imprescindibili per il tuo eclettico percorso musicale…
Un nome su tutti, un gruppo assurdo, di Malmo tra l’altro, che cantavano in svedese, i Bob Hund. C’era sta canzone che si chiamava Dansa efter min pipa. Ricordo i miei amici spararla a tutto volume da YouTube e ballarla. Incredibile!
Cosa pensi che resti oggi della scena svedese? Come sempre precorrono i tempi e lì da loro è una tendenza già affermata la dinamica del mainstream che si confonde con l’underground e in due dimensioni che si compenetrano. Al Way Out West che ho frequentato da un po’ era normale avere Slint e Zara Larsson in cartellone. Continui a essere sintonizzato e affascinato dalla Svezia e da Stoccolma? 
In realtà ora non seguo più molto il Nord, mi sono buttato decisamente verso Sud…

PIVERONE, in questo caso Google mi ha aiutato, dovrebbe essere il tuo paese d’origine… 
È il posto dove sono cresciuto e dove ho abitato fino ai 20 anni. Luogo per me legato alla musica perché è lì dove da adolescente suonavo compulsivamente ore ed ore la batteria e provavo con i diversi gruppi che avevo. Ma anche in seguito con i Drink To Me, e anche con Cosmo fino all’ultimo tour, abbiamo provato lì, in salotto a casa dei miei. C’era questa tavernetta tutta rivestita in legno, in stile un po’ “anni 70 in Piemonte”, che aveva un’acustica fantastica. Purtroppo per motivi famigliari la casa è stata venduta l’anno scorso, poco prima del lockdown. Io ero salito per aiutare i miei col trasloco e sono rimasto “confinato” lì due mesi in una cosa tecnicamente già di altri e mezza svuotata. Momento assurdo. Fine di un ciclo.
Ci torni spesso? 
No, a dire il vero.
Considerando che con Cosmo siete stati in giro per mesi e mesi è così che sei riuscito a coltivare il progetto DIECI. Me lo stavo giusto chiedendo. Escludendo quindi la dimensione live e del tour che non ti è certamente mancata (a parte la parentesi lockdown cui hai fatto riferimento) cosa ti manca di più del periodo Drink To Me? 
La cosa più bella di stare in una band è il fatto stesso di essere in una band. Quindi i rapporti umani. Si crea una fratellanza che è oltre l’amicizia e per certi versi è quasi più forte di quella che puoi provare verso certi famigliari veri e propri. Questa dimensione, che non nego che con Cosmo c’è ed è rimasta, ovviamente nei DTM era più presente.
E l’esperienza nei Drink To Me che come ci spiegherai si ricollega a BARCELONA e al Primavera Sound 2010, un’altra delle città di questo viaggio virtuale che ci sta facendo salire una nostalgia impietosa. 
Primavera Sound 2010. Mi chiama al telefono Marco (Cosmo) per dirmi che Francesco il batterista dei Drink To Me ha la mononucleosi e che sta per saltare un tour in Europa, se mi va di sostituirlo. Dico di sì, facciamo due prove appena torno in Italia e si parte. Da lì sono rimasto nella band.

Mancano due città. Partiamo da Londra. Credi sia ancora la città musicalmente più importante, in tutti i suoi alti e bassi, per la varietà e lo sguardo innovativo che il suo underground non ha mai perso. Io ultimamente credo di ascoltare solo roba che viene da lì, dalla grime alla scena elettronica?
Nel 2015 in tour con i DTM. Mi ero laureato già da qualche anno e oltre a suonare facevo il cameriere e lavoravo in una casa editrice di libri scolastici. Ricordo perfettamente un momento in cui passeggiando nei pressi del locale dove stavamo per suonare riflettevo su quanto mi piacesse stare in tour, vivere in quella dimensione lì, sempre sospesa tra luoghi e persone diverse. Il rapporto che  si crea tra le persone che suonano con te, caricare e scaricare il furgone, ecc. In quel momento ho deciso che volevo ricominciare a fare canzoni mie e portarle in giro, cantarle su un palco.

Non possiamo che chiudere con Bologna, altra città che inevitabilmente, abitando 50 km più a sud da oltre dieci anni, ho vissuto fino allo sfinimento ma che non smette mai di raccontarmi qualcosa. 
La città dove vivo ormai da 10 anni anche io, con tutte le sue narrazioni celebri e le sue mitologie più o meno veritiere. Bologna universitaria, grassa, chiusa, accogliente, giovane, provinciale, la Bologna dei cantautori, Dalla e Cremonini, ecc. Tutto un po’ vero, tutto un po’ no. Però Bologna  è diventata un paesaggio interiore anche per me ormai. E glielo devo riconoscere.
Condivido questa accezione di paesaggio interiore, che potrebbe sembrare quanto di più lontano dalla dimensione “vivace” e “sociale” di Bologna. Riflettevo che causa lockdown non ci passo una serata da circa un anno. In realtà l’ultima volta che ho fatto serata è stata proprio a Bologna, djset di Plead. Notte dagli oscuri presagi da fine COVID di fine febbraio 2020. Eh, sì. Difficile disaffezionarsi. Ti ha influenzato anche musicalmente? O lo ha fatto, un po come capita alla maggior parte degli artisti, in una fase post-adolescenziale o eternamente post-adolescenziale? 
Sì, mi ha decisamente influenzato. Per me Carboni, Cremonini, Bersani, quel tipo di bolognesità lì alla fine mi risuona, e in qualche modo cerco di farla mia. Se abitassi da un’altra parte farei musica diversa, credo. Penso molto spesso al tema dell’adolescenza eterna, lo sento determinante per capire le scelte di vita che faccio anche. Bologna in questo senso è un po’ una dichiarazione di intenti. Ricordo una vecchia canzone dei Uochi Toki (Le Città) che diceva “la ritualità di questo luogo influenza solo colui che ci crede, colui che non vede, la data di scadenza sul ricambio generazionale, rischiando di trovarsi in una città, in un locale, pieno di gente di passaggio, facendo finta di non stare invecchiando. Solo i veri duri possono abitare a Bologna”. Ecco, io sono uno di quei veri duri. Almeno ci provo.
Tocca vedersi a Bologna per una bevuta quanto prima. Momento spot pubblicitario: dove?All’Infedele. Sotto casa di Prodi.