LOW, Drums And Guns (Sub Pop / Audioglobe, 2007)

Bellezza soffocata. Respiro che si blocca in gola e che non esce, non può uscire. Anche se fingessimo di non sapere cosa è successo negli ultimi mesi a chi ha scritto queste canzoni, è fin troppo chiaro che “Drums and guns” è figlio di una crisi depressiva: in questi quarantun minuti è l’aria che viene a mancare, tutto sembra non voler essere avvicinato. I Low non sono mai stati una band solare, anzi; ma il loro respiro lentissimo e le atmosfere cupe avevano sempre, da qualche parte, un briciolo di luce che “Drums and guns”, invece, non ha: ti respinge a lungo, fino ad aprirsi all’improvviso per rivelare una bellezza glaciale, desolata, sfinita (come nella splendida “Belarus”, cori che si rincorrono su battiti digitali sfuggiti ad “Amnesiac”, il basso che pulsa lento, un violino trasparente e l’incatevole salto d’ottava di Mimi Parker nel ritornello).

Qui non ci sono né i vuoti di “Trust” né i pieni di “The great destroyer”, ma un pulsare minimo, sintetico, con le voci che si attorcigliano su se stesse, le ritmiche che incespicano a volume minimo, ossessive, mentre bordoni di synth danzano tutt’intorno. Pur essendo l’album in cui i Low hanno ampliato la loro strumentazione a drum machines e pianoforti, “Drums and guns” suona ancora più asciutto del solito: “Breaker” vive solo di un battimani, qualche nota di organo e di sparuti bleep, il gospel di “Your poison” cresce percussivamente e si spegne in poco più di un minuto, “In silence” vibra di rintocchi sinistri e di un pianoforte spaurito.

Non è un album facile, né rassicurante, questo, lo avrete capito; basta già il canto funebre e tribale dell’iniziale “Pretty people” a chiarire il passo, e non serve che “Hatchet” tenti di strappare un sorriso chiamando in causa la lotta eterna tra Beatles e Stones: “Drums and guns” è ossessionato dalla violenza e dalla morte, in ogni suo attimo. Ne è esempio la splendida “Murderer”, con quel drone di chitarra (ecco dove torna il ricordo del “Solo guitar” di Alan Sparhawk dello scorso anno, tutt’altro che un esperimento) e un call and response da blues postatomico: “Ancora una cosa prima che me ne vada / ancora una cosa ti chiedo, Dio / potresti aver bisogno di un assassino / qualcuno che faccia il tuo lavoro sporco / non fingere di essere innocente”.

Tra una propria dolente pyramid song (il pianoforte in minore di “Take your time”) e complessità ritmiche che non avevano mai avuto (“Always fade”), i Low continuano a cercare la strada verso la redenzione attraverso la musica. E seguirli è un compito doloroso e difficile.

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