LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA, “Per ora noi la chiameremo felicita'” (La Tempesta Dischi, 2010)

Nei mesi ormai trascorsi dall’uscita di questo secondo album di Le luci della centrale elettrica si è diffusa e consolidata l’immagine di Vasco Brondi come testimone diretto della condizione giovanile, gonzo-reporter del presente dei ventenni italiani. A me colpisce quanto invece il presente latiti in queste canzoni, inteso innanzitutto come tempo verbale. Come era successo nel lavoro d’esordio, il Brondi scrittore continua a preferirgli altri due tempi: l’imperfetto e il futuro.

All’imperfetto Vasco narra quotidianità perdute tra dolore e innocente incoscienza, reiterate in un passato indefinito in bilico tra ferita e ricordo, tra l’autobiografia, il mito e la finzione dei bambini (io ero, tu facevi…) senza che sia possibile distinguere una cosa dall’altra. Nonostante XL di Repubblica che gli vuole leggere addosso la fotografia dell’essere-giovani-oggi, Brondi continua a nutrirsi di immagini e parole che evocano tempi e discorsi di altri decenni: se prima erano Chernobyl e il metadone ora ci sono i metalmeccanici, la guerra fredda, il Vietnam. Il futuro invece è sempre il luogo dell’iperbole, delle promesse irrealizzabili, di impossibili e grotteschi trionfi. Come dire: il futuro non esiste, appartiene sempre ai “figli che non avremo”.

Anche il copione musicale delle Luci è fondamentalmente lo stesso, quello che cambia e si amplia è il parterre dei collaboratori. Non più solo Giorgio Canali, ma anche l’onnipresente Enrico Gabrielli e l’ottimo Stefano Pilia dei redivivi Massimo Volume, anche se l’evocare lo spettro del gruppo di Emidio Clementi è stato deleterio nella mia esperienza d’ascolto: mi viene da chiedermi, non avrà anche Vasco qualche vera storia da raccontare, una sua “Wicked Gravity” da cui ha succhiato la voglia di cantare?

Brondi invece continua a cercare lo shock emotivo attraverso una specie di estetica dell’indecifrabilità, macina accordi accatastando immagini una sull’altra come una pellicola fotografica su cui l’otturatore sia stato aperto a caso da persone diverse in tempi diversi. Non vuole parlare chiaro, sarà per questo che ha eletto a proprio feticcio “La Domenica delle Salme”, il De Andrè più oscuro nelle parole e apocalittico nei toni.

Modelli ingombranti a parte, quello che mi sembra che manchi alle Luci è un intento chiaro che dia una direzione tra qualcosa di estremamente intimo come il flusso dei ricordi e l’urlo generazionale. Forse Brondi sa interpretare il suo tempo proprio perché ne percepisce il vuoto di passione e tensione, e per questo decide di riempirlo con le guerre degli altri, la Bologna del Settantasette, i tossici degli anni ’80… ma forse per questo bastava un album. Il futuro, anche se non promette nulla di buono, diventerà presente, e anche Vasco, archiviati i rave sull’Enterprise, dovrà decidere cosa scriverci sopra.

(Stefano Folegati)

Collegamenti su Kalporz:
Le Luci della Centrale Elettrica per ora sono felici: il nuovo disco (19.09.2010).
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14 gennaio 2011

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