[#tbt] Il jazz-prog “technominimale” degli Zs

Una cacofonia brutale di rumori, un sassofono stridulo e martellate skrank. Qualcosa mi dice che la “New Slaves” che sto ascoltando non è quella tratta da Yeezus, il sesto album in studio di Kanye West – del cui sperimentalismo si potrebbe dire comunque molto –, ma da qualcosa che proviene da una commistione più spura e prossima alla scena no-wave newyorkese. Non sono sicurissima sia esattamente prog, ma durante l’ascolto le chitarre continuano a frantumarmi i timpani per una suite di oltre 20 minuti, a volte piegate in un ronzio persistente che vorrei poter chiamare ambient – se non altro perché questo implicherebbe una qualche forma di stasi – ma che so appartenere a un’estetica completamente diversa.

Gli Zs sono un gruppo di Brooklyn fondato nel 2000 dal sassofonista Sam Hillmer che nel corso degli anni ha incarnato qualsiasi formazione musicale passando dal sestetto al duo. New Slaves (2010), il loro secondo album, arriva dopo quasi un decennio per la Social Registry, fra le etichette che hanno saputo meglio registrare gli sperimentalismi provenienti  dalle scene underground brooklynite di quegli anni pubblicando artisti come i Gang Gang Dance, Artanker Convoy, Blood Lines e Blood on the Wall. Un’ora e dieci minuti per addentrarsi in un cantiere di suoni, non solo perché parliamo di musica filo-industrial per la stragrande maggioranza del disco – “Gentleman Amateur” vi farà sentire come in un alveare con i suoi ronzii microarmonici, la title-track “New Slaves” sarà il groove brutale della vespa pronta a pungervi ripetutamente – ma anche per la materialità della produzione pronta a sfidare il cosiddetto “effetto precedenza” gestendo i drone in maniera omnidirezionale. La chiosa jazzata del disco è il doppio movimento di “Black Crown Ceremony” dove i brani sfumano in meandri più ambient dispiegandosi su un drone a bassa frequenza e sembrano trovare un’odisseica pace dopo il climax. Lo sforzo degli Zs si conclude così in un vortice di riferimenti sonori, che va dal free-jazz al minimalismo, al noise, al punk, al downtown e oltre, che vede eguali in quegli anni forse solo nei colleghi newyorkesi Battles.

Insomma per una volta tornano utili le parole del noto conduttore radiofonico Howard Stern che, dopo aver suonato un pezzo degli Zs durante una puntata della sua trasmissione per Sirius XM sulla musica d’avanguardia, commentò con fare polemico: “è certamente musica ambient [in inglese col doppio significato di “atmosfera”, ndr], se sei in un reparto psichiatrico”.

(Viviana D’Alessandro)