MOTORPSYCO, Heavy Metal Fruit (Stickman, 2010)

“…se preferite continuare ad ascoltare i vostri gruppi di indie-poser in carriera, con i loro amplificatorini minuscoli, beh, fatti vostri, non ci importa: we’re gonna do it big!”. E l’hanno fatta “grossa” sul serio, i Motorpsycho, con vent’anni di carriera sul groppone e uno stacanovismo da novellini. Oddio, forse non più “tanto grossa” di quanto non l’avessero già tentata in passato o, senza dover scomodare i soliti capolavori, anche solo in quell’ultimo “Little Lucid Moments” (2007) che già di suo contava quattro belle suite chilometriche. Ma se allora si trattava di una lunga (e felice) scampagnata nelle terre del più robusto alt.rock, qui l’intenzione del titolo è chiara: si ritorna all’heavyness più ortodossa, sotto i numi tutelari di quei Black Sabbath e Blue Oyster Cult che, ci assicurano i tre, sono prepotentemente tornati ad abitare il loro piatto vinili.

Chiarito che gli ascolti di Saether e di ‘Snah’ Ryan non sono cambiati di una virgola negli ultimi due decenni, possiamo procedere all’ascolto: ci accoglie una “Starhammer” mostruosa e imponente, una bestia di nove minuti che effettivamente sbarrerebbe l’uscio a qualunque indie-poser capitato all’ascolto. Affidare l’apertura a un brano del genere è un po’ salpare gettando l’ancora, si prepara al resto dell’ascolto in un modo decisamente “impegnativo”. La scaletta prosegue, alternando momenti apparentemente “scentrati” (la ballad al pianoforte di “Close Your eyes”) ad altri più riusciti, quasi tutti imputabili alla presenza dell’amico Mathias Eick. Il JagaJazzist non ha portato in dote al disco soltanto la sua tromba, ma anche uno stimolante senso ritmico “libero” che guarda spesso al freejazz. La poderosa “X3 (Knuckelheads In Space) The getaway Special” ritrova accenti quasi funky e un uso dei cori che riporta all’hardrock negreggiante di “Barracuda” (più Hendrix che Iommi, quindi), mentre un po’ più in là faranno capolino diverse ipotesi di una fusion davisiana dove fiati e chitarre elettriche si scambino di posto.

“Gullible’s Travails”, suite in quattro movimenti, chiude dando corpo a tutti i peggiori fantasmi prog-metal che erano comparsi fin’ora. Totale, un’ora di disco per appena sei brani, una media da circa 10 minuti caduno. Sollevare un disco così “pesante”, sotto tutti i punti di vista, sarebbe un’impresa che supera le semplici regole della buona composizione per arrivare a sfidare le stesse leggi della fisica, una di quelle “magie” che però ai Motorpsycho – espertissimi nel trattare ‘materiali pesanti’ – sono riuscite già più di una volta. Che l’album invece non decolli e resti a trascinarsi al suolo, sotto il peso delle sue stesse ambizioni, è cosa naturale, perfettamente spiegabile secondo una Legge della gravità che è valida tanto in fisica quanto in campo musicale. Cose che possono capitare a tutti, persino ai Motorpsycho.

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