Intervista ai port-royal

I nuovi territori di “Dying In Time”, il rapporto con la critica musicale, i concerti nell’Est Europa ed il duro lavoro di musicista post-dance. Chiacchierata via email con Attilio Bruzzone dei Port-Royal.

Ascoltando (e riascoltando) il vostro ultimo album “Dying In Time” mi è parso di notare la precisa volontà di esplorare nuovi territori musicali senza porsi né limiti, né preconcetti. Sembra quasi che “Dying In Time” si proponga come ideale linea di demarcazione rispetto a tutto ciò che avete fatto in passato. Siete già in grado di dire come si evolverà il vostro sound in futuro?

Io direi piuttosto che coniuga la voglia di esplorare nuovi territori musicali con la precisa volontà di rimarcare e affinare uno stile molto personale che ormai è ben riconoscibile e noto a tutti i nostri ascoltatori, il tutto – come notavi – sempre senza limiti né preconcetti. Insomma, “Dying In Time” non rappresenta un cambiamento radicale, quanto piuttosto chiude una trilogia – omogenea ed eterogenea allo stesso tempo – iniziata nel 2005 con “Flares” e proseguita nel 2007 con “Afraid To Dance”. Ovviamente apre nuovi orizzonti e possibilità sia formali che sostanziali ma senza soluzione di continuità col passato: differenza nella complementarità di fondo. Impossibile dire ora come si evolverà il nostro sound. Come sempre si tratterà di un processo spontaneo e intensamente vissuto. Comunque si potrebbe esacerbare o la componente dance/techno/elettronica o quella ambient/intimista/minimal oppure entrambe. Chi lo sa ora? Per ora siamo nel campo dell’ipotesi…


Secondo voi per quale motivo molti critici in Italia si “dilettano” a paragonare il vostro sound a quello dei Sigur Ros? Quanto vi dà fastidio la cosa? (Tengo a precisare che secondo me il suddetto paragone non ha alcun motivo valido per reggersi in piedi).

Sicuramente perché in genere la critica va matta per i paragoni (il che non è necessariamente un male, se poi solo la cosa non si fermasse, però, a questo elemento superficiale di lavoro di critica…). In realtà, pur non piacendoci particolarmente, i Sigur Ros sono un grande gruppo (seppur in 2 soli dischi, a nostro avviso, Agaetis Birjun e () ), il quale però non ha tanto a che spartire con noi. L’equivoco nasce dai tempi di “Flares”, nostro album più ambient e dilatato (con qualche eco post-rock), che potrebbe in qualche modo essere associato al sound della band islandese. E poi anche per il fatto che era il nostro primo album e quindi la necessità di paragone era ancora più impellente per certa critica. La cosa non ci dà più di tanto fastidio, trattandosi comunque di un gruppo molto valido; ci fa soltanto vedere chiaramente quanto sia superficiale e parziale l’approccio di certa critica (per fortuna la maggior parte dei recensori ha abbandonato questo cliché fasullo), che all’indagine il più possibile obiettiva e profonda preferisce gli elementi superficiali e facili del paragone sensazionalista ed esausto (oltreché senza più senso da anni).


Il vostro nome è molto “in voga” all’estero, forse addirittura più che in Italia, e soprattutto nei Paesi dell’Europa dell’Est. Quando suonate fuori dall’Italia quali sono le differenze più evidenti che notate a livello di “cultura musicale”?

Le vere differenze non sono tanto tra Italia e o l’Europa Occidentale, quanto tra queste (Italia ed Europa Occidentale) e l’Europa Orientale. Come abbiamo sottolineato più volte, all’Est c’è meno “intellettualismo” e presunzione: il che fa sì che lì ci si goda i concerti appieno e non si ergano barriere pseudoconcettuali come spesso facciamo noi occidentali, che ci sentiamo sempre critici e giudici di tutto. Questo non significa prendere per buona ogni porcheria (il che purtroppo talvolta avviene quando i filtri sono allentati), bensì godersi di più lo spettacolo e partecipare ad esso senza inibizioni di sorta. In alcuni concerti in Russia il pubblico – per così dire – faceva il concerto con noi con la sua partecipazione attiva e calda. E ti posso assicurare che è una sensazione bellissima.

foto di Emanuela Bava


Diteci la verità: in questo momento in Italia si riesce davvero a “campare” facendo il musicista “post-dance”? Avete in mente un “piano alternativo”?

Come abbiamo scritto nel nostro blog, no. Nonostante molte persone da fuori possano pensare il contrario, purtroppo (o per fortuna, a seconda di come la si vede) la risposta rimane essenzialmente negativa. Le uniche vie per fare della musica – a questi livelli indie – un “lavoro redditizio” è suonare moltissimi concerti (con i dischi non si campa più, specie nella nostra dimensione indipendente dove poche copie vengono stampate e la gente principalmente scarica la musica) e riciclarsi in ruoli limitrofi, quali il produttore, il giornalista-critico musicale, ecc.


A mio avviso i video dei primi due singoli estratti da “Dying In Time” tendono a “fuorviare” l’ascoltatore dal contenuto puramente emozionale del vostro sound. Si tratta di una precisa scelta per stuzzicare la curiosità di chi vi ascolta per la prima volta oppure c’è dell’altro?

Onestamente non penso si possa davvero parlare di un “fuorviare”, in quanto riteniamo che entrambi i video siano comunque abbastanza in tema con la musica e la sua carica emozionale. Poi ovviamente dipende molto dalla sensibilità personale di ciascuno. Noi personalmente quando abbiamo visto i video in questione (del nostro Sieva Diamantakos, lo ricordiamo) non abbiamo avuto la sensazione che potessero in qualche modo fuorviare dal contenuto (emozionale) della canzone, anzi. Tu, invece, sì e questo dimostra bene la radicale soggettività della percezione estetica (fattore positivo, fino ad un certo limite). Il video di “The Photoshopped Prince” è volutamente “superficiale” (anche se il messaggio, come ho ribadito in un’intervista su di un’altra webzine, è profondo, ma di proposito nascosto dal velo “comico” e leggero della storia), in sintonia con quello che è, diciamo, il nostro pezzo “pop”. Mentre quello di “Balding Generation (Losing Hair As We Lose Hope)”, pezzo centrale del disco, ci sembra puramente emozionale. Quindi, alla fine, non posso rispondere completamente alla domanda, partendo da premesse diverse dalle tue.

Leggendo la lista dei titoli del vostro ultimo album si notano alcuni riferimenti ai Paesi dell’Europa dell’Est ed alla Russia in particolare: da dove nasce il vostro amore verso questa nazione?

Anche negli altri dischi, se è per questo. È una storia d’amore lunga e consolidata! Nasce sia da fattori culturali (ho studiato molto la storia della Russia, poi dell’Unione Sovietica e la letteratura russa, inoltre amo quei luoghi particolarmente), che personali-esistenziali. In quei posti ci siamo sempre trovati benissimo in tutti i sensi. Insomma, luoghi così lontani e vicini allo stesso tempo costituiscono per noi una sorta di “patria spirituale”: ci sentiamo a casa in quell’immenso laboratorio di possibilità inespresse…


Mi ha incuriosito molto l’immagine di copertina di “Dying In Time”: ci volete rivelare il suo significato?

Come in tutte le opere d’arte (sì, trattasi di un’opera dell’artista veneto risiedente a New York, Andrea Galvani) trovare un significato è impresa per lo più soggettiva e ardua. Andrea ha chiamato tale opera “L’intelligenza del male”, e in questo senso il fumo nero che invade la neve bianca e immacolata potrebbe simboleggiare l’onnipervasività del male che “infetta” l’anima pura. Ma noi non abbiamo una tale visione. E comunque ognuno può elaborare la propria visione/interpretazione. Prima di tutto, tale immagine ci piacque esteticamente: infatti, pensiamo stia bene con il mood dell’album, inoltre ci incuriosì ed intrigò proprio per il suo ermetismo. Cosa significa, cosa vuole esprimere? E se non significasse proprio nulla? Questo la renderebbe ai nostri occhi ancora più suggestiva e interessante…


Qual è la vostra “line-up” al momento? Cosa si deve aspettare oggi chi viene ad assistere ad un concerto dei port-royal?

Sempre la stessa: Attilio Bruzzone, Ettore Di Roberto (fondatori nonché compositori) ed Emilio Pozzolini in studio più Sieva Diamantakos ai visuals e video maker ufficiale. Più qualche collaboratore come Alexandr Vatagin da Vienna che ci segue in quasi tutti i concerti e la giapponese Izumi Suzuki (aka Linda Bjalla) che ci presta la sua voce suadente e sognante. Prima di tutto non un concerto post-rock, è bene ribadirlo! Si deve aspettare uno spettacolo audio-video intenso e potente che permette di sognare e di ballare come pazzi rimanendo avvolti in un oceano di suoni e colori metropolitani malinconici, dimensione in cui è piacevole affogare…