Intervista a The Antlers

Portrait of The Antlers, photographed in Brooklyn, NY.  April 2009

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Peter Silberman, laconico leader dei newyorchesi Antlers, band che proprio nel 2009 ci ha regalato uno dei dischi più apprezzati da pubblico e addetti, “Hospice”, vero e proprio oggetto musicale non identificato a cavallo tra generi e sonorità tanto diversi quanto suggestivi, capace di calamitare su di sé un’attenzione talmente incontenibile da trasformare un piccolo culto carbonaro (autoprodotto per giunta!) in un fenomeno di proporzioni planetarie. Miracoli dell’era pitchforkiana, come dire…

La prima cosa che colpisce degli Antlers è senz’altro la strana storia di “Hospice”. In qualche modo pensate che il fatto che si tratti sostanzialmente di un’autoproduzione (approdata ad un’etichetta vera e propria soltanto in un secondo momento) abbia in qualche modo contribuito positivamente alla sua realizzazione e al suo incredibile successo? Vi sentireste di consigliare questa strada anche ad altre band senza contratto?

Penso che questo approccio funzioni meglio per certe bands piuttosto che altre. L’auto-produzione è una scelta che non funziona necessariamente per tutti. Comunque credo che spendere enormi quantità di soldi in uno studio professionale con un grande nome, ingaggiare tecnici affermati e produttori leggendari sia più possibile che porti ad un risultato in qualche modo forzato e monotono piuttosto che il contrario. Non penso che avremmo potuto lavorare in nessun altro modo che avendo il controllo della parte creativa del lavoro.

Si dice che dietro la scrittura dell’album ci sia un isolamento durato per ben due anni a New York. È vero? A cosa è stata dovuta questa particolarissima scelta?

E’ vero ma non preciso. Ho lasciato perdere col tentativo di spiegare quello che è stato, penso che concentrarsi su questo aspetto distragga da ciò che Hospice è veramente.

Il contatto (se c’è effettivamente stato) con la fertilissima scena underground newyorchese ha in qualche modo influenzato l’orientamento sonoro e concettuale di “Hospice” e più in generale l’approccio del gruppo alla propria musica rispetto alle primissime incisioni?

Hospice è stato registrato senza ricevere grande influenza dalla musica che si faceva a New York al momento. Ho scritto musica mentre vivevo là ma non è stata per niente legata alla “scena”, almeno fino a tempi recenti. Era piuttosto influenzata da quello che ascoltavo in quel periodo e alcuni erano dischi vecchi almeno di 10 anni.

“Hospice” ha ottenuto ottimi riscontri di critica un po’ ovunque. In particolare, molto significativa è stata la calorosa accoglienza tributata all’album da Pitchfork. Qual è la vostra opinione rispetto al lavoro svolto da questo sito? Pensate che abbia in qualche modo contribuito in questi ultimi anni al successo di numerose proposte di rock “alternativo”, riuscendo magari anche a creare un certo gusto condiviso, sia a livello delle scelte delle nuove band che del pubblico?

Pitchfork è indubbiamente potente. Sono responsabili di aver fatto sfondare un sacco di bands e di aver influenzato il modo in cui la gente ascolta un disco. Parte di ciò che li rende così potenti è però la loro abilità nel stroncare un disco e bloccare l’impeto. Siamo stati incredibilmente fortunati nell’averli dalla nostra parte per Hospice, nonostante sia chiaro per noi che sono capaci di cambiare idea da un momento all’altro e questa è una cosa importante da mettere in conto.

Una delle caratteristiche che più identifica “Hospice” è senz’altro la storia raccontata attraverso le canzoni. È un’opera di pura invenzione letteraria oppure contiene dei riferimenti biografici a fatti realmente accaduti? Nel complesso volete che essa venga letta come una storia a suo modo “consolatoria”, legata cioè ad una celebrazione, per quanto sofferta, della vita, oppure come una dolorosa constatazione dell’ineluttabilità della morte?Pensate che la musica possa in qualche modo aiutare le persone a superare (e magari a “curare”) i traumi più profondi? Per voi è stato così?

L’unica cosa che davvero vorrei evitare è avere persone che finiscono di ascoltare il disco sentendosi depressi senza alcuna sorta di redenzione. Penso che sia per certi versi un disco triste, ma anche un disco che parla di vittoria.

In che modo pensate possa evolversi il vostro suono per il prossimo lavoro? Avete già delle idee più o meno definite al riguardo?

Proprio in questo periodo siamo a Brooklyn, di nuovo al lavoro. Abbiamo un po’ di tempo prima di ripartire quindi stiamo facendo tutto il possibile per tenerci occupati e continuare ad andare avanti. Ci sono cambiamenti in arrivo ma devono restare una sorpresa.

Visto che siamo ormai all’inizio di una nuova decade musicale (di cui ci auguriamo voi continuiate ad essere assoluti protagonisti!), ci piacerebbe sapere brevemente quali sono stati i dischi usciti negli ultimi dieci anni che più hanno avuto importanza nei vostri percorsi individuali.

Ci sono stati così tanti album incredibili usciti negli ultimi 10 anni! Yoshimi Battles The Pink Robots and Amnesiac mi hanno accompagnato per la maggior parte di questa decade, così anche And Then Nothing Turned Itself Inside-Out di Yo La Tengo, ma probabilmente ce ne sono ancora centinaia ugualmente importanti. Boxer dei The National e The Great Destroyer dei Low sono tra questi.

intervista di Francesco Giordani
traduzione di Valeria Stenta