Soundgarden. La kalporzgrafia

Tempi duri per certa musica, questi anni zero. L’ultima vera rivoluzione dell’intrattenimento suonato risale forse agli anni ’80, mentre oggi gli artisti migliori si dividono tra freddi e perfetti manieristi e pazzoidi un po’ spaesati che vedono l’unica valvola di sfogo nel meticciato.
È in quest’ottica dunque, più che per lo spauracchio di un’ennesima reunion da cestino delle offerte, che ha senso riprendere la discografia di un gruppo che non ha mai smesso di avvolgere la propria personalità nella fusione degli elementi più disparati.

Meticciato, ripeto.
Musicale, con gli inizi da garage band che mischia hard settantiano e new wave disperata, fino agli ultimi potenti impeti violentemente psichedelici, passando per lo spartiacque meta(l)-pop dei primi anni ’90.
Geografico, perché la storia dei Soundgarden inizia quando, nel 1981 , si trasferiscono per studio a Seattle due amici provenienti da Chicago, il chitarrista Kim Thayl (di chiare origine indiane) e il bassista Hiro Yamamoto (altrettanto ovvie le sue origini nipponiche). Mentre un altro loro vecchio amico, Bruce Pavitt, si accinge a fondare la speriamo sempiterna Sub Pop, i due studenti trovano in un loro compagno di casa un potenziale cantante e batterista. Stiamo parlando di Chris Cornell e nessuno può sapere cosa ci saremmo persi se nei primi provini i tre avessero magari scelto un altro cantante per consentirgli di rimanere dietro le pelli. La Provvidenza (sulla cui natura divina non ci pronunciamo) ha invece fatto sì che venisse arruolato come batterista tal Scott Sundquist, presto sostituito dal promettente Matt Cameron, dando modo a Cornell di forgiare nel tempo una voce inconfondibile ed emozionante e un ecumenismo coi jeans strappati che fa di lui il Bonovox del grunge (e allora Vedder sarebbe quasi una sorta di Stipe).

Ecco, è il 1986 e avendo scelto come ragione sociale il nome più bello ed evocativo per una band, i Soundgarden iniziano in parallelo due percorsi paralleli e intrecciati. Uno artistico, che li porterà ad elaborare decine di formule diverse di un’alchimia altrove definita come grunge, sfuggendo sempre e comunque da ogni canone prestabilito, e uno “mercantile” che permetterà straordinariamente ad un piccolo gruppo di provincia senza nemmeno un album nei negozi di essere sotto contratto contemporaneamente con tre diverse etichette (un climax, Sub Pop, S.S.T., A&M), il tutto insospettabilmente in era pre-Bleach. Il successo li vedrà rimanere dietro le primissime linee, con l’accortezza di non bruciarsi e di sparare le cartucce migliori con il progredire della carriera, confezionando nel ’94 forse l’opera più matura in assoluto di un certo modo di suonare rock degli anni ’90, insieme ovviamente al labirintico “Mellon Collie…” degli Smashing Punpkins (c’entra forse qualcosa Chicago?).

Da ricordare, come nodo cruciale della loro carriera, gli inizi dei ’90, che vedono l’abbandono di Yamamoto, subito dopo nei Truly, e l’arrivo dell’oscuro e problematico Ben Sheperd (nato, guarda un po’, ad Okinawa). Colpo ancor più duro la morte per overdose di Andew Wood, coinquilino e amico fraterno di Cornell nonché ugola di quei Mother Love Bone in cui militavano Jeff Ament, Stone Gossard e Mike McCready, coi quali Cornell, portandosi appresso un immenso Cameron, diede vita a quel magnifico tributo chiamato Temple Of The Dog, troppo importante per le sorti dei Soundgarden (e non solo) per non essere ricordato e talmente eccezionale da rendere necessario un approfondimento autonomo oltre queste poche righe.
Di lì in poi i Soundgarden fanno categoria a sé, tirando fuori altre tre pietre tutte eccezionali (checché se ne dica) fino ad un addio inatteso, uno scioglimento all’apice della carriera che, come per Smiths, Kyuss e Beatles, ci permette di non doverci vergognare di collezionare i classici album insipidi che arrancano randagi dopo i capolavori anche degli artisti migliori.

Quello che avvenne poi, soprassedendo su side-project più o meno dispensabili, è arci-noto per due di loro: Cornell, confeziona un album solista “Euphoria Morning”, non trascendentale né disprezzabile, tenta la resurrezione mettendosi in gioco cogli Audioslave e uscendone con le ossa malconce, tanto da giocare la carta della classifica in cassaforte con colonne sonore e sguardi ammalianti. Notizia recente il suo tentativo di sfidare Justin Timberlake sul suo terreno. Agghiacciante. Speriamo si ravveda presto. Cameron ha invece da subito cementato il suono dei Pearl Jam, diventandone in sostanza il primo batterista in pianta stabile. Più in disparte rimangono invece Sheperd e Thayl. Il primo tornato nelle cronache per aver preso parte ad uno dei capolavori del decennio in chiusura (parliamo di “Field Songs” di Mark Lanegan), ha poi sostanzialmente fatto perdere le tracce. Il secondo si è rifatto vivo in grande stile buttando benzina sul fuoco delle contestazioni di Seattle del ’99 coi No WTO Combo, in compagnia di Krist Novoselic e Jello Biafra, mentre, più recentemente ha lasciato circolare il suo nome per collaborazioni pericolose coi SunnO)).

Tutto questo fino all’inizio del 2009. E speriamo che non intervengano sciagurate reunion a farci riconsiderare una carriera che ha sfiorato in più punti vertici assoluti.

(Lorenzo Centini)

Discografia e Recensioni

Down On The Upside (A&M Records, 1996)
Superunknown (A&M Records, 1994)
Badmotorfinger (A&M Records, 1991)
Screaming Life / Fopp (Sub Pop Records, 1990)
Louder Than Love (A&M Records, 1989)
Ultramega OK (SST Records, 1988)