Primavera Sound 2009, Barcellona (28 maggio 2009)

28 maggio 2009

Hamilton Santià:

Dove c’è Sonic Boom c’è droga. C’è droga e c’è psichedelia. Spectrum suona sul palco più grande e ti viene in mente il solito ritornello (“Solo in Spagna! Solo a Barcelona!”). Le sue canzoni sono praticamente pezzi di Stooges col freno a mano tiratissimo. Molte cover, dai Mudhoney ai Red Krayola. E poi ci sono quei quattro o cinque ripescaggi dal repertorio Spacemen 3 che non guastano mai. Tra “The Perfect Prescription” e “Revolution”, Sonic Boom sembra quasi mandare un chiaro messaggio a chi suonerà il giorno dopo: sono ancora vivo e sono più fico di te.

Vaselines salgono sul palco tra le urla della folla – in Spagna chi fa pop ha sempre ragione – e attaccano le loro canzoncine pop ignoranti ma perfette. Ovviamente l’operazione nostalgia funziona e la scaletta è esattamente come ti aspetti “Molly’s Lips”, “Son Of A Gun”, “Jesus Wants Me For A Sunbean” e tutto il repertorio che ha praticamente inventato l’indie-pop scozzese degli anni ’90. Del resto, non è un caso che alla chitarra e al basso ci fossero rispettivamente Stenie Jackson e Bob Kildea dei Belle & Sebastian. Concerto davvero divertente. Loro non sanno suonare, ma non frega niente a nessuno.

Concerti da aperitivo in attesa dei fuoriclasse. Quelli veri. Quello che vengono da Hoboken, suonano assieme da vent’anni e dimostrano ad ogni concerto di saperla più lunga di tutti. È la quarta volta che mi capita di vedere dal vivo gli Yo La Tengo e sa da un lato penso siano poche, dall’altro so che ogni volta sarà un concerto meraviglioso. Anzi, sono addirittura convinto che ogni concerto degli Yo La Tengo sia il miglior concerto cui si possa assistere fino a quando non vedi gli Yo La Tengo di nuovo e quella diventa la volta più bella e così via. In eterno. Ormai non ha nemmeno più senso dirivi i titoli delle canzoni. Tanto hanno fatto quelle e se non li avete mai visti dal vivo allora è un problema vostro. Vi dico solo che hanno cominciato con un pezzo strumentale di quindici (divini) minuti dove Ira Kaplan ha massacrato, al suo solito, la povera Stratocaster marrone e han chiuso con “Sugarcube” come bis. Il resto è davvero silenzio.

Prima di farsi distruggere i padiglioni auricolari – ma poi nemmeno tanto, qui siamo all’aperto, la vera apocalisse capiterà il giorno dopo – dai My Bloody Valentine c’è tempo per il concerto “presa bene” del festival: i Phoenix. I francesi ci sanno davvero fare e sono una band pop coi controfiocchi. L’ultimo disco è, come tradizione, meraviglioso e in concerto mostrano un’anima rock che non ti aspetti. Insomma, non sono quei gnegne francesi che ti immagini e san darci dentro con le chitarre, la batteria e tutto il resto. Momenti top: “Long Distance Call” e “Too Young”, grandissimi pezzi pop tout court e veri tormentoni da sing-along. Pubblico estasiato. Pronti per il massacro.

My Bloody Valentine, quindi. Il momento che aspettavo da molto tempo anche se la stanchezza vigliacca comincia a farsi sentire al momento meno opportuno (ero in piedi dalla mattina del giorno prima senza aver occasione di dormire) e non riesco a godermi tutto come avrei voluto. Ma cosa gli vuoi dire? Volumi assassini e canzoni che sai benissimo che non potranno mai venire come su disco quindi ogni critica in tal senso è gratuita. Ti resta la consapevolezza che in quegli oceani di rumore bianco si nuota più che volentieri, che sì, Kevin Shields è un genio e ha parecchie rotelle fuori posto – secondo me lui non li usa i tappi per le orecchie che hanno distribuito a tutti i detentori di biglietto – e che il muro noise di “You Made Me Realise” ti mette a dura prova anche se ne esci soddisfatto e consapevole di aver visto quasi tutti i tuoi gruppi preferiti e han suonato quasi tutti concerti meravigliosi. Ed è capitato quasi sempre a Barcelona.

Piero Merola:

Se c’è qualcosa di brutto che accomuna il Primavera agli altri festival è il dramma delle sovrapposizioni che rendono un’impresa riuscire ad assistere, anche per le distanze tra i cinque palchi, agli attesissimi nomi nuovi della scena psichedelica americana sul palco ATP (Wooden Shjips, Lightning Bolt, Ponytail) e a guru di nicchia quali Dead Meadow o Jesus Lizard, per non parlare del cantuatorato di classe di Andrew Bird. Ma nel non-luogo non è prevista l’ubiquità per cui ci si deve accontentare – si fa per dire – della coltre di spleen che scende sul tramonto con la narcotizzante esibizione di Peter Kember aka Sonic Boom e il suo progetto Spectrum, in un’atmosfera cupa e malata da stare subito male. Si vorrebbe quasi andar via tale è la piacevole insostenibilità del tutto, ma la catartica visione mistica di “How You Satisfy Me” e la boccata di fresca aria svedese dal palco Pitchfork pongono fine al bad trip. The Tallest Man On Earth è alto nella media degli svedesi, ma le sue roventi istantanee folk cantate di stomaco sembrano delle suggestiva fotografia ingiallita dalla Louisiana o dal Mississippi degli anni ’30 più che rassicuranti cartoline Ikea-Pop. Figlio illegittimo quanto il giovane Dylan, e dunque, nipote illegittimo di Lead Belly e John Hurt, scalda i cuori e rompe il ghiaccio esaltando quella che per i tre giorni sarà sempre la platea più forzatamente cool e indie-snob del parco.

Poco da aggiungere per quanto riguarda il carrozzone quasi commovente dei Vaselines, e il trascinante show dei Phoenix, fenomeno ingiustamente accostato a territori mainstream che si riconferma piuttosto uno dei nomi di punta del pop di qualità. Ci sarebbe forse troppo da dire sugli Yo La Tengo, ma apprezzo la trovata di Hamilton sul segreto di stato posto sulle scalette e dunque mi limito a descrivere il tutto come un grande giorno in arrivo. Che poi in realtà i My Bloody Valentine suonerebbero anche oggi, all’aperto, con una scaletta non dissimile da quella del clamoroso reunion-tour dell’anno scorso. Il suono comunque non si disperde, anzi finisce per irradiarsi in un’inarrestabile scarica di distorsioni verso il mare che sembra un osservatore privilegiato quanto tramortito dell’apocalittica performance. Come tutti noi, da “I Only Said”, “When You Sleep”, “Come In Alone”, “Only Shallow, “To Here Knows When” e “Soon” estratte dal vero capolavoro degli anni ’90 “Loveless” passando per gli anteriori classici di “Isn’t Anything” (“You Never Should”, “Nothing Much To Lose”, “Feed Me With Your Kiss”) e i ripescaggi di “Cigarette In Your Bed”, “Thorn”, “Slow” dall’EP “You Made Me Realize” fino appunto alla sua traccia omonima conclusiva e i suoi 17 minuti di buco nero noise a 130 decibel (per intenderci quanto un jet che vola a qualche centinaio di metri da terra). Chi ha ceduto alla tentazione dei tappi si sarà perso il peculiare e testato effetto collaterale di un’allucinazione sonora che ripesca parti delle canzoni suonate precedentemente dai quattro dando l’impressione di emergere sul serio dalle chitarre di Kevin Shields e Bilinda Butcher. Invece loro sono come posseduti nella posa tradizionalmente shoegaze da un continuo tappeto di distorsioni che non varia di intensità né di tono.

Per tornare sulla terra, un paio di episodi alleggeriscono (o appesantiscono) l’aria visto che prima non mi accorgo di Sonic Boom, incontrastato cappellaio psicotropodell’area VIP, il quale cerca di richiamare la mia attenzione per palesare il suo apprezzamento per la mia t-shirt degli Psychic Ills e subito dopo, shame on me, non riconosco Jarvis Cocker in fila per i cessi scambiandolo per un suo emulo con bastone per zoppi e ricambiando il suo sorriso egocentrico col commiserante sorriso di solito riservato alle persone più sfortunate. Nel frattempo Nathan Williams dei Wavves si guadagna i titoli delle testate indie finendo per trasformare la performance shit-gaze in un tripudio di suoni di merda per via di un ingenuo mix di valium, ecstacy e xanax. Che fosse stata o meno colpa di Sonic Boom importa poco, perché il battesimo europeo del duo di San Diego si conclude con una deludente interruzione tra gli scazzi del malcapitato socio alla batteria.

Se la cavano meglio i The Horrors rigenerati dalla collaborazione con Geoff Barrow dei Portishead e da questa rivoluzione shoegaze che al di là di tutto, funziona anche dal vivo. Malgrado i muri di suono dei cinque sembrino di carta dopo il pandemonio dei My Bloody Valentine, bisogna ammettere che “Who Can Say”, “Scarlet Fields” e “Sea Within A Sea” si lasciano apprezzare per impatto e trovate compositive. L’allampanato Faris Badwan, nei suoi atteggiamenti tra Ian Curtis e Peter Murphy, fa di tutto per non risultare simpatico, ma gli Horrors di “Primary Colours” si dimostrano tutt’altro che una jump on the bandwagon band.

A succhiare le residue energie rimaste ci pensa poi Aphex Twin con il solito spirito volutamente dissacrante nell’accostare e ricombinare ritmiche e tempi apparentemente inaccostabili dalla d’n’b passando per soste ambient/IDM e inquietanti bagliori dub in un continuo assalto multisensoriale innescato dal disturbante visual da lui creato che si protrarrà fino alla tempesta conclusiva siglata Squarepusher versione live con tanto di basso e batteria a spazzare via tutto.

SPECTRUM
Mary
Transparent Radiation
Set Me Free
How You Satisfy Me
Go To Sleep
When Tomorrow Hits
Revolution
War sucks
Encore Call Drone
Suicide

MY BLOODY VALENTINE
I Only Said
When You Sleep
You Never Should
Cigarette In Your Bed
Come In Alone
Only Shallow
Thorn
Nothing Much To Lose
To Here Knows When
Slow
Soon
Feed Me With Your Kiss
You Made Me Realise