SOUNDGARDEN, Down On The Upside (A&M Records, 1996)

Se un anno vinci la Champions League, nessuno l’anno successivo si accontenterà del campionato, certo non la stampa, tanto meno la curva. Così capita che una prestazione ancora una volta sorprendente, energica e a tratti brillante non riesca a trattenere certe male lingue che vogliono la squadra bollita e ormai alla fine di un ciclo.

Capita così anche ai Soundgarden che dopo aver piazzato un colpo epocale con “Superunknown” vedono inscenare un assalto a quello che, a mente lucida, ne è comunque un degno seguito, non un disco di pari bellezza, ma comunque uno che nelle discografie altrui (che so, pur con tutte le differenze, in quella dei Pearl Jam) avrebbe fatto gridare al miracolo. Comunque, ormai i Garden sono una piccola multinazionale, la faccia seria e presentabile del grunge e, a discapito di continui problemi con la paranoia censoria americana, i milioni di copie vendute ne hanno minato la credibilità underground (ammettiamolo tutti, se un gruppo che amiamo comincia a vendere lo sentiamo inevitabilmente meno nostro).
Eppure decidono bellamente di fregarsene e si producono da soli un disco tutt’altro che facile e che viene inspiegabilmente scambiato per la brutta copia del suo predecessore. A conti fatti, le uniche cose che hanno in comune i due album sono la disperazione dei testi, l’ambizione di fondo e il minutaggio.

Per il resto di differenze ce ne sarebbero, il suono si asciuga, le melodie si armonizzano e arrotondano e le asperità, in questo modo, diventano ancora più urticanti. Prendiamo ad esempio la scossa luddista di “Never The Machine Forever” che, oltre a dire due o tre cosette ai RATM, è l’unico brano ad opera di Thayl (qualcosa, col senno di poi, vorrà dire) ed è un inserto di ferocia industrial che spezza il fiato all’album subito dopo la narcolessia di “Applebite” e subito prima di una ballata tradizionale come “Tighter & Tighter”.
Il senso dell’album va cercato soprattutto nel nocciolo che va da “Ty Cobb” a “Never Named”: la prima è un country punk velocissimo da far felice Jello Biafra, speziato da un banjo impertinente, “Blow Up The Upside World” mette Beatles e Led Zeppelin uno affianco all’altro a fare i conti con l’Apocalisse (in sostanza, un’altra “Black Hole Sun”, solo un pizzico meno bella), “Burden In My Hand”, murder ballad pressoché perfetta, stende una melodia limpida come un sudario su un umore torbido e tormentato, con un suono tonante come le prestazioni di Cornell e Cameron, mentre “Never Named” è un esempio di feroce non-sense punk che piuttosto che dilettare, posto dopo tanta disperazione dissimulata, inquieta come una risata tra le lacrime.
Altro abisso, più che vertice, è “Overfloater”, forse una delle più disperate dell’intera discografia, talmente cupa e lisergica da trascinare qualunque cosa a terra con sé.

Se è Cornell a farla da padrone a livello compositivo, con una serie di ballate oscure e rocciose, al contraltare c’è Sheperd che lo insegue nei numeri più punk come “An Unkind”, ma soprattutto, nella psichedelica “Switch Opens”, piazza un susseguirsi di aperture immaginifiche e di spirali discendenti su cui navigano i versi più rivoluzionari di Cornell (“Hey you slaves go hang your owners / draw your names among their ashes / put your children on their thrones / gather ’round and fall right down”) e un tramonto ancestrale si tinge dello stesso rosso del sangue.
Messa così, sembra che tutto vada per il verso giusto. Non è proprio così. A penalizzare l’album ci sono alcuni brani tutt’altro che indispensabili, come “Rhinosaur”, “Dusty”, “Applebite”, “No Attention”, che finiscono per allungare la broda lasciando spazio ai detrattori, che comunque fanno finta di non accorgersi che “Down On The Upside” è robusto ed esaltante nella maggior parte dei suoi episodi. Se i se avessero un senso, potremmo dire che tagliando qualche ramo secco, i Soundgarden sarebbero stati salutati ancora una volta come una grandissima band.
Ma i se non hanno un senso e allora basta dire che questo divenne l’epilogo di una vicenda musicale esemplare per coraggio e bellezza, chiusasi con un’ennesima prova di coraggio, piuttosto che con uno scialbo dischetto di accattonaggio grunge da classifica.

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