SILVER APPLES, Silver Apples (Kapp, 1968)

Difficile riuscire a trovare, nella storia della musica rock, un caso come quello dei Silver Apples, capaci di sfornare nel 1968 un album a dir poco rivoluzionario. L’esordio omonimo del duo newyorchese (Simeon alla voce e ai suoni e Dan Taylor agli strumenti percussivi) ha in sé, con dieci e più anni di anticipo la rivoluzione punk, la new wave, l’avanguardia sonica, e la sperimentazione elettronica.

“Oscillations”, aperta da riverberi cosmici seguiti da una base ritmica ossessiva e angosciante, da una voce snervata, da una batteria elettronica e da piccole esplosioni di rumori ha la stessa struttura che anni dopo farà la fortuna di band come Suicide e Kraftwerk. “Seagreen Serenades” avrà non poca influenza sugli esperimenti del Brian Eno di “Another Green World”, con la sua splendida cadenza pop mescolata alla tensione avanguardistica nell’uso dei rumori e dei tappeti sonori.

Straordinario l’incedere ovattato e sognante di “Lovefingers”, nel cui splendore il sound ipnotico e straniante della band raggiunge vertici stilistici di assoluto valore, spiazzante l’organetto sovrastato da metronomici battiti elettronici e dalla voce salmodiante di Simeon in “Program”, mentre in sottofondo si fa largo un tappeto sonoro che ricorda da vicino le fughe psichedeliche dei Tangerine Dream e dei Pink Floyd di “Ummagumma”.

Voci registrate, elementi da festa paesana, ossessività metropolitana e fuga psichica, tutto è mescolato da questo combo stralunato e miracoloso. Il mondo descritto in “Velvet Cave” è debitore dell’esordio dell’altra storica band newyorchese capitanata da Lou Reed e John Cale e allo stesso tempo permetterà lo sviluppo di quell’altra fondamentale area musicale contemporanea che è il rock teutonico: Faust, Can, Neu!, i già citati Kraftwerk (ma anche il Bowie berlinese) per tutti l’ascolto di questo album sarà di primaria importanza.

Ipotesi di elettronica etnica si fanno luce in “Whirly-Bird”, una narrazione teatrale adagiata su riverberi, cacofonie, rumori e rintoccare di timpani è alla base di “Dust”, una sorta di crasi tra Velvet Underground e prodromi di una world-music nella percussiva “Dancing Dogs”, quasi ieratica nella sua scarna magniloquenza, un finale epico con “Misty Mountain”, pura e semplice anticipazione dei Devo e del techno-pop che tanta parte avrà negli anni ’80. Ascoltare “Silver Apples” equivale a comprendere il corso della storia della musica rock.

Ascoltare nello stesso album psichedelia, avanguardia, kraut rock, new wave, punk, elettronica, technopop e musica etnica è di per sé un’esperienza sconvolgente, aguzzare la vista e scoprire che la data di pubblicazione risale al 1968 rischia di far venire l’infarto. Credetemi sulla parola, la più fornita e apprezzabile bacheca rock senza questo album rischia di diventare vuota.

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