WEYES BLOOD, “And in the Darkness, Hearts Aglow” (Sub Pop, 2022)

Si è molto parlato di “lockdown music”: ecco “And in the Darkness, Hearts Aglow” potrebbe essere definito il primo, vero album del mondo post-Covid. Più che per il sound, sono i temi affrontati da Weyes Blood che fanno di questa sua nuova opera un punto di riferimento dell’epoca a cui ci affacciamo, timidamente, quella di un superamento del dolore nell’ambito di una distopia più o meno latente. La maestria di Natalie è evidente perché riesce a trasfigurare il piano personale in quello universale, e più o meno tutti se ne sono accorti se è vero che “And in the Darkness…” è stato eletto album del mese praticamente da tutte le riviste italiane, cartacee e online (e anche per noi Weyes Blood è l’artista cover del mese).

Dal punto di vista musicale Weyes Blood completa quel percorso verso le sonorità dei primi ’70 di gruppi come The Carpenters e Carly Simon, quel soft rock elegiaco in cui la facevano da padrone il pianoforte e certe atmosfere evocative, già iniziato con l’eccelso “Titanic Rising” ma facendo sottrazione di quella piccola parte sintetica che c’era ancora nell’album del 2019. “And in the Darkness…” diventa quindi una sorta di ripartenza dove tutto è distrutto, con una strumentazione basica se non primordiale come può essere quella di pianoforti e orchestrazioni di violini per marcare la necessità di costruire il nuovo mondo dalle fondamenta. Ma, attenzione, c’è un aspetto che va rimarcato a chi potrebbe liquidare la parte sonora a una mera reprise di quello che fu: la Mering si esprime in un modo pienamente contemporaneo, perché, a differenza dei riferimenti che abbiamo citato, in lei predomina una sofferenza sottotraccia che è diversa dall’humus fieramente pop (lo potremmo definire anche “di evasione”) di Carpenters e artisti similari. Anzi, più che sofferenza Weyes Blood dimostra un distacco quasi patologico, una capacità da medico-legale di sezionare e analizzare la vita e i rapporti umani come se fosse da essi distante, come se non ne facesse parte. E in questo senso si confà benissimo la sua dichiarazione a The Forty-Five “Mi piace pensare che la mia musica, invece di essere un intrattenimento, sia più un incanto”. Ecco la parola-chiave: incanto. Ciò che riesce alla Merling è di farci stare lì muti e attoniti nell’ascolto dei suoi rivoli musicali minimali e maestosi allo stesso tempo, in una sorta di estasi appunto incantata in cui i suoi pensieri diventano i nostri: insomma, una comunione quasi religiosa (non a caso la copertina la sorprende come una specie di nuova santa).

Dall’ottica testuale, invece, tutto dovrebbe essere chiaro perché Weyes Blood ha pubblicato una lettera, lo scorso settembre, in cui ha spiegato i temi che affronta la sua nuova prova, da considerarsi la seconda di una trilogia iniziata appunto con “Titanic Rising”. I punti centrali sarebbero principalmente tre: (1) l’essere immersi in un’epoca di instabilità e cambiamenti senza ritorno, (2) la tecnologia che ci sta allontanando dalle persone e (3) il cuore, quel muscolo nel nostro petto che forse ormai per pudore nessuno cita più come senso delle cose (ma non Natalie, che lo fa pulsare in copertina), come necessaria guida e speranza in un periodo buio. In realtà un viaggio nelle liriche “And in the Darkness…” deve essere compiuto immergendosi completamente in esse e non limitandosi ad appiattirsi acriticamente a quello che è stato l’intendimento dell’autrice, seppure così chiaramente espresso. Le opere, quando escono dagli autori, sono di chi li riceve, e sono pronte per assumere significati propri e a girare autonomamente per il mondo per donare a chi ne vorrà godere la propria prospettiva. È un lavoro a cui non possiamo sottrarci.

La constatazione di partenza (in “It’s Not Just Me, It’s Everybody”) è che tutti questi cambiamenti, la pandemia in primis ma anche la tecnologia ben rappresentata dal cellulare sempre in mano che in realtà è un “buco” (“With this hole in my hand”), ci abbiano fatto diventare degli estranei gli uni per gli altri, e forse anche per noi stessi:

Living in the wake of overwhelming changes
We’ve all become strangers
Even to ourselves

Ma è l’ambito dei rapporti umani, in ogni caso, quello su cui rincamminarsi, inevitabilmente, cercando di trascendere dalla monotonia dei nostri lavori quotidiani e dal nostro aver smesso di divertirsi, più in particolare alla ricerca di quell’anima affine, quella “fiamma gemella” (“Twin Flame”) che possa portarci a svagarci “alla ruota panoramica” (da “Hearts Aglow”):

Oh, I’ve just been working
For years and I stopped having fun
Oh, but baby, you’re the only one
Who would drive me down to the pier
Takе me up on that ferris wheel

Weyes diventa quindi come la portavoce di una generazione di trentenni (lei, classe 1988, ne ha 34) che stanno cercando il loro posto nel mondo, e sono sempre in bilico tra anelare a trovare “il grande amore” (“Cause I’ve been waiting for my life to begin / For someone to light up my heart again”) oppure a rimanere fedeli a loro stessi come nell’invocazione di essere trasformati in bellissimi fiori che forse non sbocceranno veramente mai (“God Turn Me Into a Flower”). Il riferimento è al mito di Narciso, qui evidentemente aggiornato ai tempi di Instagram, la cui ossessione per un riflesso in una vasca lo porta a morire di fame e a perdere ogni percezione al di fuori della sua infatuazione.

Soprattutto la Merling ci dona un testo davvero superbo, carnale e vivido nella canzone “Grapevine”: lei ricorda un amore, un “emotional cowboy with no hat and no boots” che l’ha fatta bruciare di passione (“California’s my body / And your fire runs over me”) ma che si è portato via il suo amore come fosse un bambino con il pallone (“He has the power to take his love away”). In questo rimembrare il suo anelito notturno sarebbe quello di tornare nella vigna dove forse hanno fatto l’amore tutta la notte, sdraiati nei prati, in un’immagine bucolica e piena di vita e di amore (“But I still think of him at night / Ooh, you know I would go back to the camp”) e invece ora sono solo come “due macchine che passano nella vite” (“Now we’re just two cars passing by on the grapevine”). L’immagine che mi figuro leggendo questa frase di chiusura è di due carri che vendemmiano paralleli, per due strade che non si incontreranno mai, e non c’è pertanto alcun lieto finale.

La Merling, con quella sua scrittura sempre un po’ sopra le righe in quell’essere un po’ apocalittica (forse retaggio dell’essere stata cresciuta da genitori cristiani pentecostali), individua anche molto chiaramente chi potrà migliorare questa situazione di stallo di persone “che non sanno dove stanno andando” (“We don’t know where we’re going” canta in “Hearts Aglow”) e cioè solo le nuove generazioni: in “Children of the Empire” infatti preannuncia l’alba di un nuovo uomo (“The dawning of a brand new man”) in cui potranno essere solo i bambini a cambiare le cose (“Children of the empire wanna change“) alla ricerca della “fiamma eterna”, cioè del motivo davvero per cui viviamo. Non si tratta di sopravvivere, ma di bruciare di vita.

E il messaggio conclusivo è perfettamente a fuoco: è stato un “lungo e strano anno” (oramai sono quasi tre, a dire il vero), ci troviamo immersi in un mondo diverso e noi stessi siamo diversi, dicono che il peggio è passato ed è ora di uscire, di divertirsi, di guardare al futuro (da “The Worst is Done”) ma, in realtà, conclude Weyes in un modo certamente ironico visto che la musica di accompagnamento è briosa, siamo a pezzi, ci sentiamo più vecchi e il peggio deve ancora venire.

It’s been a long, strange year […] They say the worst is done And it’s time to go out […]

We’re all so cracked after that/ Got kinda old […]

But I think the worst has yet to come

Ma Weyes Blood non si cruccia di tutto ciò, lo osserva, lo scruta, lo analizza, ma poi va per la sua strada che è inevitabilmente spirituale perché il suo approccio appare quasi ascetico. L’obiettivo, come dice lei, è “la comprensione dei cicli naturali della vita e della morte”, e l’ascolto dell’album lascia nei nostri animi una consapevolezza che forse è scontata ma di cui ci dimentichiamo spesso: che nelle tenebre, nei momenti bui, i cuori si illuminano e brillano ancora di più.

80/100

(Paolo Bardelli)