Fontaines D.C., pogo al Regio di Parma

Fontaines D.C., Barezzi Festival, Teatro Regio, Parma – 6 novembre 2021

Bisogna inevitabilmente partire dal fondo, da quando i nostri irlandesi “lanciano” (ed è proprio il caso di dirlo) il riff di “Boys In The Better Land” e il pubblico, stremato dal rimanere immobile nei seggiolini del Regio di Parma, si alza e per buona parte finisce sotto il palco. Il Regio, teatro della lirica e della classica, probabilmente non aveva mai visto una roba del genere, e anche se abituato in questi anni a bellissime programmazioni del Barezzi Festival (Echo & The Bunnymen e Apparat nel 2019, Anna Calvi nel 2018, Michael Kiwanuka nel 2017, solo per citare gli ultimi, e si potrebbe continuare per molto andando indietro nel tempo), il rock -inteso in senso lato- aveva generalmente rispettato il tempio di Giuseppe Verdi. I Fontaines D.C. invece hanno surriscaldato gli animi come non mai, fino a scatenare un accenno di pogo nella conclusiva “Liberty Belle” e ciò sta a significare a mio parere almeno un paio di cose. Primo: che i dublinesi possiedono una resa live convincente e coinvolgente. Come si sa il vero valore di una band lo si riconosce dal vivo e in questo senso il loro post punk viene in presenza ulteriormente ringalluzzito, e non era scontato. I Fontaines suonano come in studio, senza orpelli e con fedeltà ai pezzi, ma lo fanno con una naturalezza che inevitabilmente passa attraverso delle distorsioni e degli sfrigolamenti avvincenti ed entusiasmanti.
In secondo luogo questo “sfogo” del pubblico non può non essere riportato nell’alveo della riappropriazione dei concerti e delle loro manifestazioni di gioia (per me il pogo lo è) dopo quasi due anni di pandemia: seppure con le ormai nostre “amiche fidate” mascherine sul viso, sabato sera il Regio era al 100% di capienza e la visione di questo teatro pieno era fonte di contentezza al di là di chi avrebbe suonato da lì a poco.

Partendo dall’inizio: i Fontaines si sono presentati lanciando fiori al pubblico (probabilmente quelli che il Teatro gli aveva appena consegnato, come si usa agli artisti a teatro) ma con un atteggiamento tra il distaccato e lo “scazzato”: Grian Chatten aveva i pantaloni di una tuta Adidas vintage, di quelli che già se ci vai al pub invece che tenerteli solo in casa sei vestito piuttosto male, figuriamoci per presentarsi su un palco teatrale. Poi: non ha detto una parola una in tutto il concerto (chiaramente un concerto non è una chiacchierata tra l’artista e il pubblico ma alle volte qualche piccola introduzione ai brani può aumentare l’empatia con chi ti ascolta). Gli altri hanno suonato (benissimo) con l’atteggiamento di essere capitati lì a caso. Capirete che se unite questi tre indizi la prova è che i Fontaines D.C. erano forse un po’ intimoriti dal luogo ma che – spoiler – sono rimasti fortunatamente loro stessi senza risparmiarsi (unico neo per alcuni la durata del concerto, un’ora e dieci, che per me però è sufficiente). Era Parma, ma poteva essere Dublino. Questi siamo noi, se vi piaciamo bene altrimenti bene lo stesso, ne riparliamo davanti a una pinta. E questo il pubblico lo ha sentito, assieme al loro modo sanguigno di fare rock (perché per certi pezzi parlare di post punk è limitante, penso a “Roy’s Tune” oppure alle ballad conclusive dei loro due dischi, sabato peraltro non suonate), ed è nata una sintonia artista-pubblico. Chatten non è stato un mostro di espressività coinvolgente, ma ci ha provato alle volte a venire verso il pubblico e incitarlo a scuotersi dall’immobilismo (necessitato) da poltroncina teatrale. Il più delle volte però era rinchiuso in se stesso e iniziava a girare in tondo come un ossesso, declamando i testi letterari della sua band con la consueta padronanza baritonale (ha stonato nella sola “You said”).

Il risultato musicale? A tratti sconvolgente, delirante, credo che “Hurricane Laughter” dal vivo sia da annoverare in quella tipologia di canzoni che pagheresti il prezzo del biglietto solo per sentire quella, lo si poteva intuire già nella versione in studio e vi confermo che, sì, è stato così, anzi molto di più di quello che potete pensare. In altri punti la potenza strumentale ha seguito un po’ la dicotomia tra “Dogrel” e “A Hero’s Death”, due album piuttosto diversi e che usano tonalità differenti, più dirette il primo e più notturne il secondo, per cui – con l’esclusione di “Televised Mind” – è apparso evidente che le canzoni di “Dogrel” siano più eccitanti (e eccitate) mentre quelle di “A Hero’s Death” più d’atmosfera (ma pur sempre con un gran tiro da band spaccaossa). Per di più, in generale, con una precisione d’esecuzione che va a braccetto, e spesso può non essere così, con l’urgenza e l’irruenza.

I Fontaines D.C. ci hanno fatto sentire di nuovo vivi, e per noi appassionati musicali è ossigeno, è sangue, è come una trasfusione di sensazioni vitali. Quando tutto questo, e avete già capito cosa intendo, sarà passato, pogare a un loro concerto sarà la liberazione definitiva. Probabilmente ciò non succederà a marzo quando torneranno (22 marzo 2022 ai Magazzini Generali di Milano), ma speriamo il più presto possibile: loro ci hanno indicato la via.

(Paolo Bardelli)

Scaletta:
A Hero’s Death
A Lucid Dream
Sha sha sha
Chequeless Reckless
You said
I don’t belong
The Lotts
Living In America
Hurricane Laughter
Too real
Big
Televised Mind
Boys In The Better Land

Encore:
Roy’s tune
Liberty Belle

foto in alto Paolo Bardelli
altre foto: ufficiali del Barezzi Festival