“Fyre: La più grande festa mai avvenuta”, il documentario

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Un post condiviso da Hailey Rhode Bieber (@haileybieber) in data:

Oramai dovremmo essere scafati: la vignetta “On the Internet, nobody knows you’re a dog” è del 1993, insomma un po’ di strada la si è fatta con la consapevolezza che dietro alla Rete ci può essere anche solo un’immagine e non sostanza. E ci sono tutte le informazioni correlate, geografiche e di comunicazione, per poter reperire notizie e dati che smascherino truffe o presunte tali su internet. E invece, il Fyre Festival è accaduto. Il documentario “Fyre: La più grande festa mai avvenuta” (su Netflix) ci racconta del Festival di lusso su un’“isola deserta” mai realizzatosi, con artisti del calibro di Blink-182, Disclosure, Major Lazer, nell’aprile 2017. E che riesce a farci riflettere di più rispetto all’equazione “millenials ricchi e gonzi che se lo meritano” che ci arrivò all’epoca leggendo le cronache.
I piani di lettura sono molteplici: siccome ai Festival ci andiamo tutti, all’inizio si segue il documentario con una sana compartecipazione alle sfortune che andranno incontro i ragazzi che hanno comprato il biglietto, perché davvero si capisce subito che saranno in balia di un’armata brancaleone. Che s’improvvisa promoter, che ragiona con i soldi facili. E si va anche oltre all’equazione di cui sopra: il biglietto basico costava sì 1.500 dollari però comprendeva i voli da Miami all’isola, pasti e alloggi, che dovevano essere di classe. Non una spesa economica, intendiamoci, però qualcosa che potrebbe essere alla portata di una middle-class che punti a toccare l’upper. Alla fine si ritorna a pensare che questi “mezzi ricchi” comunque sono stati sprovveduti: nel phishing effettuato da Billy McFarland dopo il Fyre con mail attraverso un prestanome, gli stessi beffati del Fyre ci mettono un secondo a verificare il bruciato, basta una telefonata, una ricerca su Google. E così si ritorna al “darwinismo” citato in un talk show, cioè che se ti fai truffare così Darwin farà il suo corso.

Però l’ingenuità non è capace di spiegare tutto: nella truffa del Fyre c’è realmente quello che all’inizio vagheggiano McFarland, il rapper Ja Rule e gli altri della combriccola: dare in pasto un sogno. Eterno cibo del popolino: il sogno di essere qualcuno, o anche solo di essere vicino a qualcuno che conta. E il documentario invece è un grido verso un principio di realtà: la concretezza dei conti di bilancio, del lavoro necessario a metter su un’intero spazio per un festival dal nulla, la pioggia (!!?), i colleghi. Ecco, i grandi temi sullo sfondo che il documentario fa materializzare sono il lavoro e la (mancanza di) dignità: il lavoro che alla fine non è pagato, il lavoro che è solo quello giorno dopo giorno e che necessita di tempi che non erano quelli dei pochi mesi che si erano dati gli organizzatori improvvisati, il lavoro fatto perdere da McFarland da un giorno all’altro senza preoccuparsi di ammortizzatori sociali o meno. La dignità invece incarnata da Maryann Rolle, che ha preparato pasti su pasti e, non essendo stata pagata, ha tirato fuori soldi lei i soldi per tutti i suoi collaboratori perché “io qui ci vivo”. La dignità non fugge, come invece hanno fatto tutti gli altri.

E alla fine il tema è la responsabilità: è solo McFarland colpevole o lo sono anche tutti i tirapiedi della corte che non sanno dire di no? Non lo sono anche le modelle che fecero il video di presentazione e gli influencer che postarono i primi post? Loro non sono mica responsabili della buona riuscita del prodotto che pubblicizzano, direte voi. Esatto, pubblicizzano. Molto interessante l’avvocato che così en passant dice: “Eh, bisogna spiegare a questi influencer che se non mettono l’hashtag #pubblicità anche loro diventano responsabili di quello che postano”.

Che poi nemmeno la parola “truffa” è capace di spiegare quello che sia successo al Fyre. Se vuoi fare un raggiro non prenoti nemmeno l’isola e gli artisti. Non lavori fino all’ultimo giorno in maniera sconclusionata, ti fermi prima, anzi non inizi nemmeno. Qui c’è pura e semplice incompetenza e presunzione, c’è una totale mancanza di senso della realtà. Realtà a cui invece il documentario, nella sua meticolosità, ci riporta: le storie delle persone, delle loro vite, della delusione finale, quella sì reale. Che poi i “truffati” alla fine cadono in piedi, si potevano permettere quella spesa e pure di aver perso quei soldi, mica sono andati in fallimento. In un fallimento metaforico ci siamo invece noi quando guardiamo Instagram e pensiamo che sia la realtà.
Il documentario “Fyre: La più grande festa mai avvenuta” è dunque un’altra dimostrazione della necessità odierna di fact checking nel tempo della post-verità. Ma ci vorrà tempo per questa consapevolezza. Nel frattempo un panino al formaggio ci seppellirà.

(Paolo Bardelli)