I cambiamenti avvengono nelle città: il Barezzi Festival di Parma

Barezzi Festival, Teatro Regio e Auditorium Paganini, Parma, 15-17 novembre 2019

Successo per la tredicesima edizione del Barezzi Festival, che dal 15 al 17 novembre ha portato al Teatro Regio e all’Auditorium Paganini di Parma un vasto pubblico di diversa estrazione musicale. Complice, la scelta della line-up che ha visto alternarsi sul palco gli alfieri del post-punk britannico Echo & The Bunnymen (15 novembre), il producer berlinese Apparat (16 novembre) e il soulman J.P.Bimeni ad aprire il live dei francesi Nouvelle Vougue (17 novembre), insieme a tanti ospiti.

Sembra ieri, eppure sono passati più di quindici anni, dall’avvento sul web del primo social-network in grado di mettere in comunicazione appassionati di musica su di una piattaforma virtuale, Myspace, che oggi vanta tra i soci capitali anche l’artista Justin Timberlake. E in questo lasso di tempo anche il fruire e il fare musica si sono dovuti adattare ai cambiamenti dettati dal tempo e dalla crisi economica. I live si stanno trasformando in vere e proprie “esperienze” sensoriali, dove non è più sufficiente offrire uno spettacolo per creare interesse e muovere un vasto pubblico, servono altri escamotage inclusi nel pacchetto a pagamento, per rendere appetibile un concerto. Penso a gadget a tema, alla possibilità di incontrare i propri beniamini nel backstage, piuttosto che ad autografi stampati sul proprio biglietto o alla scelta di location inusuali dove fruire di musica. Tutto questo passa dal cuore delle città che si mobilitano per accogliere un nuovo tipo di turismo, quello musicale. Parma, Capitale Italiana della Cultura nel 2020, ha già istituito da anni spazi e manifestazioni in grado di creare dialogo, comunicazione e interazione diretta (non mediata da piattaforme virtuali) tra appassionati di arte, musica e cultura. Una città legata ai grandi compositori e direttori di musica classica, che ha saputo fondere passato e presente, oltre che diversi generi più contemporanei, eleggendosi una piccola capitale della musica. Il Barezzi Festival (creatura di Giovanni Sparano), nel 2019 alla sua tredicesima edizione, rappresenta perfettamente questo connubio. Un festival che trae forza dalle radici della propria tradizione, qui omaggiate nella figura di Antonio Barezzi, il mecenate che per primo riconobbe il talento del giovane Giuseppe Verdi sovvenzionandone gli studi; un festival che però ha avuto la capacità di proiettarsi verso nuovi orizzonti sonori, dando avvio ad un sodalizio profondo con artisti internazionali (da Herbie Hancock a Rufus Wainwright) e creando sinergie con enti e aziende del territorio, non ultima, la Fondazione Teatro Regio di Parma che in questa edizione ne ha curato l’organizzazione. Per un mese ci si trova a spostarsi tra un teatro all’altro della bassa parmense (a volte veri e propri gioiellini tutti da riscoprire), avvolti dalla prima nebbia timida di novembre, per presenziare agli eventi PREVIEW e ROAD, che aprono il festival ad ottobre e che anticipano i grandi concerti, che di lì a qualche settimana si svolgeranno nel bellissimo Teatro Regio. Busseto, Fontanellato, Fidenza, Soragna. In ben tredici edizioni al pubblico si è data la possibilità di riscoprire luoghi ricchi di storia e da sempre conosciuti per la tradizione gastronomica. L’11 ottobre è toccato a Giovanni Lindo Ferretti, fondatore dei leggendari CCCP Fedeli alla linea (poi CSI e PGR) aprire questa edizione che, come sempre, ha mixato in modo intelligente musica rock, pop ed elettronica. Bella anche l’idea di ripercorrere le strade della provincia ( e dei luoghi legati a Giuseppe Verdi), per arrivare solo dopo una precisa scelta artistica, a portare il pubblico all’interno della città di Parma e nel suo meraviglioso Teatro Regio, che nel 2019 ha visto alternarsi sul palco Echo & The Bunnymen (precursori del post-punk britannico) e poi Apparat, al secolo Sascha Ring, da anni protagonista assoluto della scena elettronica berlinese e internazionale.

Per chi, come me, è figlio degli anni Ottanta ma non ha mai avuto l’occasione di viverli, ma solo l’opportunità di studiarne le influenze nell’era dell’oggi, il concerto degli Echo è apparso come un piccolo viaggio nel tempo, fatto seduta su di una capsula di velluto rosso, ad osservare una creatura del passato, ancora graffiante, come la voce del tenebroso Ian McCulloch, che ha aperto il live con un vecchio successo “going up” (del 1980) per mixare poi nuove tracce estratte dal recente “The Stars, The Oceans & The Moon” (vedi “Rescue” o il secondo bis con “Ocean Rain”) e omaggiare anche i musicisti che hanno segnato la musica della band britannica, come Doors (con “Roadhouse Blues”) e Velvet Undergroud ( nel medley con “Walking on the Wild Side” di Lou Reed). I volumi erano perfetti e finalmente sentivi anche le classiche chitarre ruvide degli anni Ottanta, grazie al tocco dello storico chitarrista Will Sergeant, emergere dall’etere. Ian cercava di mantenere distacco da tutti, pubblico e band, quasi a volersi regalare quella gloria che, per qualche anno, condivise con i più celebrati U2. E se è pur vero che oggi degli anni Ottanta si recuperano quasi esclusivamente i suoni dei sintetizzatori, per elaborare hit estive, gli Echo ci hanno ricordato che negli anni Ottanta si sfornavano anche bei dischi. Sarebbe stato più travolgente poter ballare su di un palchetto di terzo ordine, un rock un po’ ingessato in questo senso, ma che ci ha comunque trainato per circa due ore, prima ancora con i giovani ma credibili e talentuosi Fil Bo Riva. Dal mio punto di vista il Teatro Regio si è invece dimostrata una location perfetta per il concerto di Sascha, che ha portato sul palco una vera e propria band di professionisti, ad alternarsi tra sintetizzatori, tastiere, contrabbasso, batteria, chitarre e basso. Riduttivo definire Apparat un gotha della musica elettronica, poiché dal palco arrivava una contaminazione di suoni (rock, jazz, elettronica) che ti portava dritto nella pancia di un bruco, che pareva cambiare forma ad ogni traccia. Ma nulla mai è esploso realmente. Suoni, luci e ombre, riverberi, atteggiamenti, voci. Tutto studiato in modo impeccabile e forse, in questo, emerge anche l’attitudine da produttore di Sascha Ring.

E’ un po’ come se la sua musica fosse una fredda folata di vento o una pioggia sonora, nel caso di “Means of Entry” in grado di immobilizzarti udito e vista in una teatralità musicale contemporanea. I droni e le voci riverberate di “Laminar Flow” mi hanno ricordano molto lo stile di Bon Iver, anche se nel caso di Vernon la sua musica ha più le sembianze della forma canzone e il folk, da cui prende a piene mani Justin, influisce sul pathos emozionale dell’esibizione. I live pomeridiani si sono invece svolti nella maestosa Sala del Ridotto, dov’era un tempo  il trono di Maria Luigia. Qui hanno echeggiato le voci del songwriter di Wolverhampton, Scott Matthews e i reading e le canzoni di Vasco Brandi (già Le Luci Della Centrale Elettrica). Per Dente, Cristiano Godano, Francesco di Bella ed Enzo Rubino c’era il pubblico del Tanqueray Bar, mentre la Sala Ipogea del bellissimo e moderno Auditorium Paganini (progetto di Renzo Piano) ha ospitato il dj set di Marcellus Pittman, i francesi Novelle Vogue e un istrione del new soul quale J.P Bimeni. Già ospite del Porretta Soul Festival Bimeni ripesca con classe dal patrimonio dalle leggende 60s (Otis Redding a Marvin Gaye) per promuovere un vero e proprio show ( compresa la classica sigla di apertura fatta dalla band) dove la sua anima d’Africa coinvolge il pubblico in un caldo e travolgente live. Quello che veramente mi ha colpito di questo artista è l’attitudine con cui riesce a tenere il palco, la sua classe e personalità, che riescono a renderlo appetibile anche alle Major, anche a discapito di una voce forse non troppo riconoscibile. Un bel finale, nonostante i due generi non si combinassero perfettamente. Più algidi i Novelle Vogue (che hanno aperto con una lunga cover di “Fade to Gray”) e che hanno dovuto mantenere alta la temperatura del pubblico, che usciva entusiasta dal precedente e infuocato live set.

Una tre giorni intensa, che ci ha lasciato con un’unica amarezza: il Barezzi Festival ritornerà solo il prossimo anno. Un’altra interessante line up, un’altra occasione per girare come turisti per Parma, per finire a mangiare e bere in un’osteria del centro, tra vecchi che si riparano dalla pioggia al caldo e giovani tatuati come Sfera, che ordinano Lambrusco. Non è sulla rete che succedono le cose, ma nelle città. Questo Festival ce lo ricorda, ancora una volta.

(Gloria Annovi)

foto di Enrico Tallarini