AFA No. 20: Les Filles de Illighadad

Guidati da Les Filles de Illighadad, il gruppo di Fatou Seidi Ghali e nato inizialmente come duo con Alamnou Akrouni, e dalla label Sahel Sounds di Christopher Kirkley, compiamo un viaggio ideale dal cuore del Niger al mondo. Fino a Portland, negli Stati Uniti d’America, dove il chitarrista Ahmoudou Madassane “suona” il suo western on-the-road Jodorowsky.

Fatou Seidi Ghali & Alamnou Akrouni, “Les Filles de Illighadad” (Sahel Sounds, 2016)

“Les Filles de Illighadad” sono Fatou Seidi Ghali e Alamnou Akrouni. Il loro caso costituisce un unicum sulla scena contemporanea della musica dell’Africa Orientale, quella venuta alla ribalta per la musica della tradizione tuareg e dopo il successo (giustificato) dei Tinariwen. Ci troviamo comunque davanti a qualche cosa di diverso e non solo perché qui al centro troviamo due artiste di sesso femminile (è una donna anche un’altra delle collaboratrici del duo, Fitimata Ahmdelher), affiancate dal chitarrista Madassane Ahmoudou, uno dei nomi proposti dalla label Sahel Sounds di Portland nell’Oregon, ma anche perché il loro sound costituisce una novità per l’incontro tra due componenti differenti della tradizione tuareg, le sessioni di chitarra acustica “ishumar” e quelle centrate sull’utilizzo del “tendé” e da cui consegue la caratteristica di queste registrazioni di questo primo embrionale album che è unica per il carattere folk tradizionale e quello di vero e proprio rituale.

Idealmente possiamo a tutti gli effetti, pure alla luce della considerazione sopra esposta, dividere questo primo album introduttivo intitolato semplicemente con i nomi di Fatou e Alamnou, in due parti. La prima si compone di cinque ballate folk acustiche e centrate principalmente sul suono della chitarra, da “Achibaba” a “Eliss Wan Anas Douban”, da “Inigradan” a “Erilegh Ifanata” e “Telilit”, questa e la voce sono al centro della composizione. È uno stile chitarristico che chi mastica un po’ di musica di quella regione del mondo conosce: vale la pena sottolineare le vibrazioni del suono dei bassi di pezzi come “Erilegh Ifanata” o “Telilit” che secondo me sono il tratto più caratteristico e efficace.

La seconda parte, tutto quello che una volta avremmo definito come lato B, è invece una sessione scatenata di quello che potremmo definire un rituale folkloristico centrato sul suono dei “tendé”, praticamente un tamburo tradizionale di produzione artigianale ricavato lavorando il calabash, ricoperto da pelle di capra. Sicuramente l’effetto è particolarmente folkloristico e assume un contenuto universale che a tratti fa pensare a roba dell’altra parte dell’Atlantico come i riti degli indiani d’America. Qui l’effetto è molto poco “discografico” ma molto caratteristico e peculiare e valorizzato in relazione a questo parametro, dubito potreste sentire qualche cosa di simile in circolazione.

Definirei tutto in una sola parola: autentico, ma l’amalgama appare ancora incompiuto rispetto ai propositi iniziali, la fusione tra i due orientamenti riesce solo in parte, il disco appare più una specie di manifestazione d’intenti e la prima parte, bella, non sta in piedi da sola senza la seconda e viceversa.

62/100

Les Filles de Illighadad, “Eghass Malan” (Sahel Sounds, 2017)

Il primo disco di questo duo si può definire a tutti gli effetti una specie di sperimentazione: la qualità stessa delle registrazioni non è di grande qualità e abbiamo sottolineato come quell’amalgama tra il suono della chitarra e il tendé fosse ancora da definirsi. La stessa definizione di “Les Filles de Illighadad”, che costituiva il titolo della prima pubblicazione, qui viene adottato in maniera definitiva come nome del progetto. Va da sé, dunque, che questo secondo LP intitolato “Eghass Malan” si possa considerare come il primo vero album del duo e in ogni caso è il primo registrato in studio in maniera professionale. Il disco è uscito sempre per la Sahel Sound e con la collaborazione e la produzione di Christopher Kirkley, uomo di riferimento della label, ed è stato registrato questa volta in Europa a seguito di un tour intrapreso nel vecchio continente dal duo e più specificamente in Germania a Colonia da Björn Sonnenberg e Jan Niklas Jansen.

Siamo distanti anni luce dalla dimensione di Illighadad, praticamente un piccolo centro isolato nel cuore del Niger, distante tanto dal deserto del Sahara, siamo infatti ai margini, quanto dai grandi centri abitati: qui manca l’acqua corrente e l’elettricità, le persone vivono per lo più di pastorizia così come fanno da secoli. Il viaggio che compiono da qui alla Germania e in giro per l’Europa queste due artiste, Fatou Seidi Ghali, che qui si afferma come il principale punto di riferimento del progetto, e Alamnou Akrouni, costituisce a quello che si può definire un grande balzo in avanti sul piano culturale.

Il loro sound viene definito come “avant-rock”, una definizione che al di là del genere spiega la rottura sul piano culturale da parte di questo gruppo rispetto a uno schema e impianto di tradizioni che volevano la musica “tuareg” come solo patrimonio di sesso maschile. Fatou ha imparato a suonare la chitarra dal fratello di nascosto, la ripresa del rituale del “tendé”, che si compie in diversi contesti, fa parte delle tradizioni del popolo che abita la regione e in questo secondo album la magia si può definire compiuta.

Nelle sette canzoni dell’album sono una successione di folk tuareg dai tratti fortemente evocativi, con quelle venature blues Ali Farka Touré e l’imprinting rituale del tendé a fare da distinguo rispetto a sonorità già note come quelle Tinariwen e derivati. Il carattere fondamentale è tipicamente ipnotico, la musica cattura l’ascoltatore e lo pone in una dimensione alterata che ha qualche cosa di magico e qui il carattere della “ripetitività” più che un limite, ci sembra un pregio e effettivamente lo è. Se la domanda è se questa formula magica possa funzionare per sempre, la risposta è che queste due formule di folk tradizionale esistono da sempre. Il loro carattere primitivo qui è superato da questo grande balzo, se continueranno a crescere e senza staccarsi troppo dalla terra, dimostreranno di avere ancora altri colpi in canna.

75/100

Ahmoudou Madassane, “Zerzura” (Sahel Sounds, 2018)

Un quadro più ampio della stessa realtà da cui provengono Les Filles de Illighadad ci viene dato da questo disco, che poi è una colonna sonora, del giovane chitarrista nigerino Ahmoudou Madassane. Il disco è uscito per la Sahel Sounds nel novembre 2018 con la collaborazione del solito Christopher Kirkley e l’aiuto in cabina di regia di Jason Powers. “Zerzura” ha praticamente lo stesso titolo dell’omonimo film-documentario sperimentale, anche dato il carattere peculiare e improvvisato dal regista e ideatore (lo stesso Christopher Kirkley) durante questo viaggio in compagnia di Ahomoudou attraverso il Niger e il deserto del Sahara.

Il protagonista è il giovane Ahmoudou Madassane, che nel 2016 abbandona la vita di campagna verso la città in cerca di suo fratello scomparso: è l’inizio di un viaggio alla ricerca di un’oasi incantata, una antica città ricca di tesori. Lungo il cammino incontrerà nomadi, banditi, cercatori d’oro e migranti e demoniaci djinn… Il film è praticamente un road-movie, avvicinato al cinema di Jodorowsky e ai documentari etnografici di Jean Rouch: Christopher Kirkley e la Sahel Sounds avevano già fatto qualche cosa di simile con Mdou Moctar (Ahmoudou è uno dei suoi collaboratori) nel film-documentario “Akounak” (2015), che ha praticamente lanciato il comunque più popolare e esperto chitarrista anche lui nigerino nel mondo occidentale e autore di un bellissimo e acclamato disco (“Ilana: The Creator”, Sahel Sounds) pubblicato lo scorso marzo.

Il film è uscito in lingua tamashek e con sottotitoli in inglese e francese, ma la narrazione è a tutti gli effetti affidata al suono della chitarra di Amhoudou. La post-produzione è stata fatta a Portlando al Type Foundry: Christopher ha montato un proiettore, fissato un lenzuolo alle pareti e cominciato a far girare le immagini del film, Ahmoudou ha registrato così la colonna sonora con delle improvvisazioni di chitarra elettrica che sono un elogio alla musica tuareg che è già stata resa celebrata variamente da Tinariwen, Tamikrest, ovviamente Mdou Moctar ecc. ecc.

Oggettivamente di suo le registrazioni sono interessanti e danno un’idea delle capacità di questo ragazzo, ma il disco non dice granché se non come complemento dell’opera visiva e da cui non può essere scisso. Lo si premia comunque come buon auspicio e perché è idealmente anche l’inizio, più che l’arrivo, del viaggio di questo ragazzo talentuoso dal Niger al mondo.

61/100

Emiliano D’Aniello