PAUL BANKS, “Banks” (Matador, 2012)

“Is this the right time to know me?”
Con questo interrogativo, cantando con la sua voce baritonale, in “Summertime is coming”, Paul Banks chiude il suo disco solista, il primo utilizzando il suo vero nome, dopo che nel 2009 aveva pubblicato “Julian Plenti is… Skyscraper” con il moniker di Julian Plenti. Finito di ascoltare il disco, lo stesso interrogativo ha iniziato a ronzare anche nella nostra testa alla ricerca, se non di una risposta, quantomeno di un indizio.
Dunque, is this the right time to know… Mr Banks?

L’impressione è che, a dieci anni dallo spettacolare esordio con “Turn on the Bright Lights” degli Interpol, Paul Banks si trovi ad un crocevia fondamentale della propria carriera. Dopo lo scuro e introspettivo self-titled degli Interpol e l’intimista e malinconico “Julian Plenti is…Skyscraper”, il cantante di origini inglesi sembra cercare le coordinate giuste all’interno delle quali muoversi e in questo lavoro l’operazione riesce a fasi alterne. Il disco, registrato a New York con il produttore Peter Katis, è permeato da una atmosfera nuova, alla ricerca di un suono più organico e meno freddo e, in alcuni frangenti, mostra il salto di qualità fatto da Paul come autore e arrangiatore. Un prodotto musicalmente intenso in cui l’utilizzo di orchestrazioni viene controbilanciato, al contempo, da schizzi di elettronica. Un disco elegante e raffinato, che non presenta sbavature né cadute di stile, al massimo qualche forzatura. “Another Chance”, ad esempio, con il suo incedere hip-pop, sembra fuori contesto anche se è apprezzabile per la voglia dell’autore di aprirsi a nuovi orizzonti (peraltro già esplorati attraverso l’altro alter ego DJ Fancypants).
La sensazione che il disco lascia sulla pelle è quella di essere un lavoro, sicuramente valido e curato, ma incapace di affondare il colpo nonostante il suo autore avrebbe i numeri per farlo.
“The Base” apre le danze affilando le chitarre e la voce di Paul, tra spunti elettronici, violini e mellotron, ci si insinua dentro meravigliosamente. “Now and then I can see the truth above the lies” canta Banks trascinandoci nel pezzo che, controbilanciato da leggeri e impercettibili cori in sottofondo, trasmette un senso di inquietudine. A seguire, “Over My Shoulder”, un pezzo pop-wave tirato a lucido e con un testo introspettivo in tipico stile Banks. Continuando nell’ascolto qualche passaggio a vuoto (l’insipida “No Mistakes” e la sconclusionata “Young again” che, probabilmente, con un lavoro più accurato in fase di produzione avrebbe avuto un maggior impatto) fa sì che il disco mantenga una sensazione di incompiutezza. E se “Arise, Awake”, con la sua cadenza irregolare e le sue vibrazioni acustiche, sembra esplorare il passato e al tempo stesso proiettarsi verso il futuro musicale del cantante, la strumentale “Lisbon” è uno schizzo di luce che si addentra in territori nuovi e inesplorati risultando perfettamente funzionale all’interno del disco. “Paid For That” e “I’ll Sue” sono i due episodi in cui l’anima Interpol è più evidente ma mentre la prima è sostenuta da vibranti riff di chitarra e da una ottima sessione ritmica, la seconda perde incisività in un ritornello che risulta un po’ stucchevole.
A chiusura del disco “Summertime is coming” che, insieme a “The Base”, risulta il pezzo più riuscito. Lievi chitarre la rendono subito orecchiabile e un incalzante giro di basso ci accompagna in un crescendo che viene interrotto, a chiusura del brano, da una coda acustica che riesce a risaltare l’inconfondibile timbro vocale del frontman degli Interpol.

Nel complesso, l’album mostra il tentativo da parte del cantante di progredire, evitando la stagnazione e rifuggendo la figura stereotipata (di nuovo Ian Curtis) che più volte gli è stata cucita addosso. Mancano le vette emozionali di “Julian Plenti is… Skyscraper” (non c’è una “Skyscraper” o una “On the Esplanade” per intenderci) e il disco non vibra come i migliori episodi degli Interpol ma, nonostante ciò, Banks dimostra di saper sfruttare il piglio compositivo che da sempre lo contraddistingue.
In conclusione, “Banks” è un disco denso, pungente, complesso, non immediatamente accessibile, che dà la sensazione di poter crescere nel tempo, ascolto dopo ascolto. E’ un disco personale, senza però essere intimo e che desta curiosità perché ci svela un lato dell’autore non ancora venuto completamente allo scoperto e che, forse, lo sarà in futuro.
L’impressione è che sia un disco di transizione, per lui e, indirettamente, per gli Interpol.
Da questo punto di vista, l’abbandono della band da parte del bassista Carlos Dengler, avvenuto due anni fa e che ha, di fatto, chiuso la prima era degli Interpol, permette l’apertura di una nuova fase in cui Paul deve decidere che direzione intraprendere, nella sua carriera solista e con la sua band.
Forse, quando avrà sciolto questo dubbio, anche noi potremo rispondere alla domanda: “Is this the right time to know Paul Banks?”

68/100

(Ivano Zullo)

4 novembre 2012

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