WEEZER, Weezer (Red Album) (Geffen, 2008)

Una cosa è chiara: quando cominci a suonare più o meno come un’imitazione sbiadita dei tuoi numerosi imitatori (a venire in mente sono soprattutto Orson, Rooney o Ok Go) o forse anche peggio, ovvero una “pessima” e maldestra imitazione degli imitatori di te stesso, ebbene forse è giunto il triste momento di ammettere: 1) che sei ormai diventato un’immagine mitologica, “classica” (e quindi imbalsamata), nell’iconografia illustrata del rock, quindi complimenti! oppure 2) che stai semplicemente diventando vecchio e inattuale, da inseguito sei trapassato nella scomoda situazione di inseguitore, quindi buona fortuna!

Per quanto riguarda i Weezer, che proprio in questi giorni inanellano l’ennesimo album cromatico (dopo il blu e il verde), sembrerebbero vere entrambe le ipotesi, nel senso che il gruppo di Rivers Cuomo un’impronta nel rock (americano soprattutto) l’ha senz’altro impressa e lasciata, ma di dischi belli e incisivi, bè, quelli è da quasi un decennio che non ne arrivano più. E questo “Red Album” tendenzialmente non fa eccezione. Sarà che viene dato allo stampe dopo un temporaneo scioglimento della band che rischiava di diventare definitivo (inframmezzato per altro dalla pubblicazione di una raccolta di demo malmessi e malmostosi dello stesso Cuomo), sarà che per la prima volta anche altri membri del gruppo partecipano al processo creativo, ma l’album non decolla, anzi affoga nella propria rutilante retorica a corto di argomenti e storie davvero interessanti. Fatta eccezione per il singolo “Porks And Beans” (il cui video tende comunque a mettere in secondo piano il palese e scaltro riciclaggio della vecchia e storica hit “Buddy Holly”), le canzoni sono tutte bruttine e piuttosto perdenti, dimenandosi tra sculettamenti powewr pop finto-teenageriali in odore di Knack e Ramones (“Troublemaker”, “Automatic” o “Everybody Get Dangerous”), fruste cianfrusaglie da Counting Crows invecchiati male (“Thought I Know”) e altri ritrovati da mercatino delle pulci allergico alla genialità (“The Angel And The One”, che ha una scia emo pop quantomeno sospetta). Ma la novità più sostanziosa è testimoniata senz’altro dalla recente infatuazione del gruppo per mini-suite dal minutaggio esteso e dalla forma assai libera e mutevole, sul modello degli Who di “Tommy” e “Quadrophenia” (si ascolti ad esempio “The Greates Man…”), scelta che tende a pagare fino ad un certo punto, anche perché la scrittura non è che sia sempre propriamente all’altezza. “Dreamin’” e “Cold Dark World” non sono da buttare, ad ogni modo.

Questo “Red Album” (come anche il recente e quasi contemporaneo “Red” dei britannici Guillemots) si intinge insomma nel colore quasi inequivocabile di una sempre più preoccupante emorragia di idee volate via come se niente fosse. A parità di baffo (entrambi i frontmen delle band se ne fregiano il viso con orgoglio), risultano preferibili i Killers, che perlomeno di loro ci mettono una grandeur e una senso del pathos (ai limiti della pantomima (auto)parodizzante) più spericolato e carnevalesco.

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