BJORK, Debut (Mother Records/ One little Indian, 1993)

Partiamo da un luogo comune: Björk è un’aliena. Considerazione stupida e abusata, ma non per questo meno vera. Artista che si ama o che si odia, ma nessuno può evitare di riconoscerle una sensibilità non comune. E se anche aliena non fosse, sarebbe una divertente chiave di lettura per questo “Debut” (titolo quantomeno singolare per una cantante che aveva iniziato la carriera nel 1977, a solo undici anni): come interpretare altrimenti le parole con cui si apre “Human behaviour”? “Se mai ti capitasse di avvicinarti a un essere umano e al comportamento umano, preparati a rimanerne confuso” canta, quasi fosse una sorta di David Attenborough venuta da chissà dove, su un sottofondo percussivo caldo e pervaso da scariche elettriche.

Una voglia di scoprire quello che sta al di là e che è nascosto, una curiosità infantile e sovreccitata pervade tutto il disco: non è difficile immaginare questa ragazza scuotere un amico addormentato sui divanetti di un qualunque club islandese, e tentare di convincerlo ad andarsene altrove, lontano (“There’s more to life than this”: “potremmo prendere una barca e fuggire da quest’isola / potrei portare il mio piccolo stereo / nella vita c’è più di questo”). Una voglia di fuga piena di desiderio di scoprire, di spingersi ogni volta oltre, con l’incoscienza di una bimba che prova a giocare con le sue regole (“non conosco il mio futuro dopo questo weekend/ e non voglio conoscerlo” canta, tutta contenta, in “Big time sensuality”).

La musica, e le parole, seguono l’istinto, libero di sperimentare e di accostarsi ogni volta ai generi e ai ritmi più disparati, dagli upbeat di “Crying” e nella già citata “Big time sensuality” all’incedere fatato di “Venus as a boy” (una cyber- fiaba d’amore?), da “The anchor song” punteggiata dagli ottoni (pare di vedermela davanti, Björk, aspettare la notte per tuffarsi nel mare e farne la sua casa) agli umorali battiti techno di “Violently happy”, fino alle altezze siderali raggiunte dalla voce nella cupa “Play dead” : non ci sono confini, né regole. A fare da trait d’union tra queste dodici canzoni, una Voce inconfondibile: quella sì, aliena e inarrivabile, strumento tra gli strumenti, alla ricerca del suono puro, giocando con le parole e con la loro musicalità come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Disco straordinario e inimitabile, ma a questo punto non c’era nemmeno bisogno di sottolinearlo: solo il primo di una serie di capolavori che, a distanza di dieci anni, sembra ancora ben lungi da esaurirsi.

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