Calexico, Milano (Alcatraz) (17 aprile 2003)

Si può suonare musica allegra e vivace ma profonda? E’ possibile farlo bene, anzi, alla grande, anche dal vivo? Si può far musica per far ballare una coppia che, un momento sta guardando il “Grande Fratello”, e un momento dopo è al concerto e contemporaneamente accontentare i critici e coloro che sono stanchi della solita musica?

E’ possibile suonare musica latina e mariachi senza dare l’impressione di sagra di paese? Si può! Forse non tutti ci riescono ma si può. Se qualcuno era all’Alcatraz di Milano il 17 aprile ha in mente un nome preciso, su chi può farlo: Calexico. “Feast or wire”, il quarto cd della band di Tucson (Arizona) che nelle classifiche di fine anno sarà nella prima cinquina di quasi tutti, aveva già messo sulla buona strada ma il concerto milanese ha tolto ogni dubbio sulle potenzialità di questa band. Perché alla fine molti ricordi saranno incentrati sull’allegria delle trombe mariachi, sulla voglia di sombrero e sulle atmosfere di tanti film western che le musiche del gruppo hanno evocato, ma sarebbe assai riduttivo pensare che i Calexico sono stati solo questo; sarebbe come dire che i Radiohead fanno solo del pop rock.

In realtà, i Calexico hanno usato la musica tex mex come partenza per portare il pubblico verso destinazioni diverse, ad iniziare dal jazz che su “Feast of wire” fa capolino di tanto in tanto e anche all’Alcatraz ha spezzato parecchi momenti.

Grande spazio è andato alle canzoni del recente cd, partendo dall’iniziale “Pepita” per poi toccare vari altri episodi, avvicinandosi ora al post rock e ora alle ballate melodiche alla Neil Young (la splendida e ironica “Not even Stevie Nicks…” Steve Nicks è stato cantante dei Fleetwood Mac nella seconda parte della loro storia). Neil Young è anche l’autore di “Ohio” una delle due cover del concerto, riconoscibile solo dal testo tanto era lontana dall’originale. Viene da dire che era un’altra canzone, lunga una decina di minuti, con un riff elettrico ripetuto quasi fosse un loop, con il testo in comune. Idem per “Neon golden” dei Notwist, a sottolineare l’ecletticità del gruppo. E se i fiati e le chitarre (aiutati dall’ottima batteria) facevano sempre pensare ad un’America prossima al Messico, ritmiche e arrangiamenti spesso portavano verso il country e addirittura verso la dance.

Due ore di musica che poteva andare avanti tutta la notte e una grande prova d’artista per questo gruppo, che deve ormai essere considerato una delle realtà più concrete ed interessanti degli ultimi anni.
C’era anche Vinicio Capossela, gironzolante tra il pubblico; se qualcuno ha dei dubbi chieda a lui.