MARY COUGHLAN, Red Blues (Tradition & Moderne Musikproduktion, 2002)

Mary Coughlan porta da molti anni ormai la sua voce nelle case di chi è capace di dare attenzione alla qualità, alla passione, all’impegno: insomma, poche case. Mary è una grandissima torch singer irlandese, dalla vita burrascosa come un romanzo di qualche suo grande conterraneo scrittore. La sua giovinezza è spesa tra un lavoro di cameriera e frequenti crisi depressive che la costringono ad internamenti in tristi cliniche “specializzate”. Se è vero che il senso di disperazione ed oppressione può essere un ottimo grimaldello artistico – esisterebbe il blues senza le piantagioni di cotone e lo sfruttamento razziale?… – la Coughlan trova nei suoi vocalizzi malinconici ed etilici l’unico mezzo d’espressione per poter gridare al mondo la propria esistenza. E’ dalla metà degli anni ’80 che la cantante sforna dischi sofferti e sovente molto belli, pieni di pathos e di una peculiarità interpretativa non comune che la fa avvicinare (con molto rispetto e distanza) al mito di Billie Holiday. A quest’ultima Mary dedicherà un intero disco tributo, chiarendo definitivamente le proprie radici artistiche e perfino esistenziali.

“Red blues” è l’ennesimo tassello di una carriera votata al blues ed al jazz, con qualche escursione nella canzone pop d’autore. L’album è stato registrato in tre soli giorni in uno studio di Brema ed è prodotto da un’organizzatrice di festivals blues in Germania, Petra Hanisch. Il mondo ovattato e malsano di certi fumosi night clubs fa spesso capolino in canzoni come “Black coffee”, “At night” e nell’eccellente “Blue light boogie”, ricca di un sax caldo e suadente e di perfette spruzzatine di piano. Le tipiche ballate piene di spleen della rossa irlandese le identifichiamo in “Ain’t no love in the heart of the city” (grande opening track) ed in “I’d rather go blind”, dallo spirito discretamente Vanmorrisoniano. In generale ci si lascia davvero sedurre da un’atmosfera di grande classe, abbinata sempre e comunque a questa voce roca e strascicata, segnata dalle intemperie della vita. In particolare, non possiamo esimerci dal segnalare la grandissima versione di “You can leave your hat on”, l’arcinoto pezzo scritto da Randy Newman e portato al successo da Joe Cocker a supporto delle immagini del film “9 settimane e mezzo”. Ebbene, dimenticate quell’interpretazione un po’ patinata: qui siamo in piena e pura black music, tribale e rarefatta al tempo stesso. Congas, un sax e la voce della Coughlan creano un climax indimenticabile e realmente sexy: qui lo spogliarello si reclama, e qui raggiungerebbe un degno status artistico.

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