Roger Daltrey, Milano, Teatro Smeraldo, 24 marzo 2012 (“Tommy”, Las Vegas edition)

“Devo spegnere il cervello e godermi il concerto. Devo spegnere il cervello e godermi il concerto. Devo spegnere il cervello e godermi il concerto…”. E’ questo il mantra che mi sono inutilmente ripetuto decine e decine di volte sabato 24 marzo al Teatro Smeraldo di Milano.
Sul palco, Roger Daltrey, voce di The Who, a riproporre “Tommy” nella sua interezza ad un pubblico eterogeneo: in platea vip e volti noti, un’età media ben superiore a quella del 43enne campione di flipper sordo, cieco e muto. In piccionaia, invece, tanti ragazzini entusiasti e orgogliosi delle loro t-shirt con la union jack, a dimostrazione che, come ha dichiarato Rog più volte nel corso della serata, la musica è un linguaggio universale.
Già, a patto però di capirne le sfumature, o almeno di “sentirle”, di esserne consapevoli. E, a ben guardare, la questione è tutta qui.
Certo, non aiuta il fatto che i brani di “Tommy” sembrino tutti spenti, eseguiti col freno a mano tirato. E nemmeno che la voce sia al lumicino, al punto che a volte Daltrey si rifugia in un canto di diaframma che lo fa assomigliare terribilmente al Pavarotti che duettava con Bono sui pezzi degli U2 con effetti involontariamente comici.
Non è questo il punto: non si può chiedere ad un uomo di 68 anni di cantare come un trentenne. E di certo Daltrey ci mette tutta la sua passione e la sua onestà intellettuale, ma l’impostazione del concerto in sé ha qualcosa di ingenuo. E l’ingenuità si perdona ad un ventenne, nel caso di un uomo di quasi settantanni si chiama in un altro modo. Inconsapevolezza è il sostantivo che calza di più.
Quando Frank Simes spara duecento note al secondo nell’assolo di “I can see for miles”, viene da chiedersi come faccia Rog a non capire: Pete Townshend ha dimostrato che basta una nota, una sola singola nota, per tirare fuori uno degli assoli più strepitosi della storia del rock. A patto di avere l’intenzione e la consapevolezza giusta. Quella che Simes non ha, a giudicare dal terribile suono di chitarra, annegato nel riverbero, che riesce a fare uscire dalla coppia rock per eccellenza: una Gibson infilata in un Marshall.

Quando Simon Townshend zoppica malamente sulla pennata di “Pinball Wizard”, o quanto imita il fratello nei cori o nelle movenze, viene da chiedersi perché. Perché Roger non è stato a casa? O, se davvero sentiva l’urgenza, il bisogno di riportare “Tommy” on the road, perché non ha osato di più? Perché, non potendo avere gli Who, e nemmeno gli Who2 del terzo millennio, si è accontentato di un surrogato invece di proporre una chiave alternativa, più personale, con musicisti diversi per sound e stile? A 68 anni, con milioni di dischi venduti alle spalle e il proprio nome scolpito nella storia del rock, cos’avrebbe avuto da perdere? L’idea, forse, era che sarebbe bastata la presenza del frontman per contagiare con l’aura-Who gli altri musicisti. In realtà è successo il contrario: è stato Daltrey a finire per sembrare una parodia, un’imitazione del cantante degli Who che, appare evidente, non è più.
La conferma è arrivata quando, esaurito “Tommy” ed un medley imbarazzante di canzoni di Johnny Cash ed altri standard blues, la band si è lanciata nel primo brano veramente riuscito dell’intera serata. L’attacco di “Young Man Blues” ha messo i brividi e Daltrey, gettando l’ugola oltre l’ostacolo, ha cantato alla grande, pur nei limiti imposti dall’anagrafe. Salvo poi rovinare tutto accendendo la modalità Las Vegas: in un numero da cabarettista del secolo scorso, Daltrey ha fatto roteare il microfono, fingendo di non riuscire a prenderlo al volo. Col risultato di trasformare in parodia un gesto scenico leggendario, un marchio di fabbrica assolutamente personale, unico, e di scatenare l’ilarità del pubblico. Pubblico che, a onor del vero, ha dato ragione a Roger, rispondendo in maniera pavloviana a tutte le vecchie hit della band con urla, salti e cori entusiasti e rimettendosi a sedere ogni volta che la scaletta usciva dai binari del “best of”.

Quando, al crepuscolo della serata, Roger ha deciso di chiudere il concerto con “Blue, red and grey” all’ukulele, per un attimo il sottoscritto ha pensato di avere sbagliato tutto e che ci fosse ancora una speranza. Giusto una manciata di secondi, prima che l’ultimo brano si trasformasse nel perfetto sunto del fallimento della serata: Daltrey ha reso giustizia alla canzone per nove decimi di brano, cantando con trasporto e sofferenza una ballata straordinaria, intrisa di malinconia, di mezzi toni, di immagini struggenti e sussurrate. Solo per svilire tutto riaccendendo la modalità Las Vegas, trasformando il finale del brano in una offensiva e irrispettosa polka, eseguita con un sorriso divertito al grido di “questa roba piace ai tedeschi”.

Mentre guardo il pubblico sfollare, in buona parte entusiasta dopo due ore e mezzo di spettacolo, posto su Facebook che “Un concerto degli Who è come fare l’amore con la donna dei tuoi sogni. Il concerto di Daltrey stasera allo Smeraldo è come guardare un film porno la cui protagonista le assomiglia un po’” sperando di non ricevere troppi insulti. Poi, infilando la mano nello zaino, ricordo di aver comprato su una bancarella, prima dell’inizio del concerto, una t-shirt con su la copertina di “The Who By Numbers”: in fin dei conti non è stato un viaggio sprecato.

(Giampaolo Corradini)

28 marzo 2012

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