THE MIDDLE EAST, “I Want That You Are Always Happy” (Spunk, 2011)

Strane le incertezze con cui spesso guardiamo ai piccoli eventi per giudicarli, capaci di farci tornare continuamente sui nostri passi, disfacendo le trame dei nostri giudizi, ritessendo e rivalutando un filo che rischia di logorarsi, e accrescendo così l’importanza stessa della piccola fatica che stiamo mettendo su. Doveva sentirti così il gigante Gulliver bloccato dalle minuscole corde dei piccoli lillipuziani. E in un certo senso è quello che mi è accaduto ascoltando il primo full lenght “fiume” dei Middle East, australiani cristiani devoti con l’urgenza della prima opera.
Come giustificare infatti la difficoltà nel giudicare le 14 tracce di “I Want That You Are Always Happy”? Come spesso avviene l’unico modo per dare la giusta dimensione alle cose del mondo è giudicarle e nel mio caso è, con ragguardevole ritardo che non sa come fare ammenda, recensirle!

In questi mesi accaldati, giudizi contrastanti e opposti su questo lavoro si sono divisi tra l’apprezzarlo o il liquidarlo senza pensarci più. Un aut-aut che grazie a brani come “My Grandma Was Pearl Hall”, dove il cantato resuscita il carissimo Mark Linkous e uno sperso pianoforte consegna la mente a una cocente e quasi insopportabile tristezza, si è congelato indeciso se proclamare una nuova promessa o battezzare l’ennesimo discepolo senza discernimento.
Se ci si imbatte poi nella magia atemporale della opening track “Black Death 1349” brano inusuale per la sua lieve cupezza o in “As I Go To See Janey” sorretto da suggestioni del folklore britannico, come non restare spiazzati invece ascoltando la successiva “Jesus Came To My Birthday Party”? Una chitarra fuzzata prova alcuni accordi prima di partire con un estemporaneo e non più ripreso twee-pop. Giustamente è il singolo estratto, giustamente merita la heavy rotation radiofonica. Ma è un caso isolato che non lega con quello fin qui ascoltato, forzato e giustapposto, che non rende per giunta giustizia alle capacità e alla sensibilità fin qui mostrate dai nostri 7 ragazzi del Queensland.
L’atmosfera folkabilly introdotta all’inizio nelle sue caratteristiche brit, con “Land Of Bloody Unknown” si converte quasi interamente in un country modesto da ultima frontiera rosicata, con suoni affettati e corretti stile Nashville Sound da club retrò. Non basta intravedere il talento di folk anomalo giusto il tempo di un brano à la Wilco (“Very Many”): l’adeguamento alla modestia di un mainstream sicuro è ormai avvenuto.

Turba e stupisce “Mount Morgan”, saturo e sciamanico brano post-rock che da solo vale metà album e che, sorgendo come la roccia di Uluru, riscatta l’anima. Come un picco di desertica imponenza che svetta su tutte le tracce precedenti e seguenti, ci regala un finale da brivido con il violino e il sax che si accarezzano a vicenda. Sarebbe stato un finale da capogiro, la punta di un iceberg che sarà avvistato nuovamente nel reprise conclusivo “Mount Morgan End”, se tra le due tracce l’anima non fosse stata consegnata al sound della costa Pacific Northwest statunitense.
Seguono infatti con un’insistenza masochista “Mounth”, un mite indie rassicurante, “Dan’s Silverleaf” e “Hunger Song” da fiera campestre a base di salsiccia e birra, “Ninth Avenue Reverie”, inutile autoflagellazione con banjo e violino, e “Deep Water” 10 minuti di vacuità noiose. Ed è dopo un silenzio di più di due minuti che, come dicevo prima, rispunta l’iceberg “Mount Morgan End”, reprise jazzy di tastiere, fiati, piatti e chitarra che trasforma la melodia ascetica di riferimento in un sentimento forsennato e dibattuto.

Questo è “I Want That You Are Always Happy” che anche ora che finalmente l’ho recensito non riesce a farmi convinta di niente, per la sua incoerenza e disorganicità sulle quali però galleggia un imponderabile talento che solo il tempo ci dirà se casuale o per il momento soltanto offuscato da scelte creative e di produzione discutibili, come l’aver registrato in tre momenti e in tre studi differenti, lasciando la sensazione di aver messo su una raccolta miseramente posticcia. Che posso aggiungere… boh… giudicate voi.

59/100

(Stefania Italiano)

28 settembre 2011

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