WOLVES IN THE THRONE ROOM, “Celestial Lineage” (Southern Lord, 2011)

Possiamo interrogarci per ore sulla fondatezza di una definizione di indie-black metal, solo apparentemente idiota, affibbiata ad alcune delle nuove leve statunitensi poste sotto i riflettori mediatici, ma a zittire ogni possibile riserva che ancora possiamo avere nei confronti di un black-metal americano riformato ci pensa l’uscita di “Celestial Lineage”. Rispetto ai precedenti, i Wolves In The Throne Room mettono in secondo piano l’impatto percussivo squassante e dissimmetrico ed esaltano invece la loro dimensione sinistramente ambientale, forti in questo della presenza sempre maggiore di elementi e suoni naturalistici. Inoltre l’ingresso di sintetizzatori ieratici va nella direzione di un’ancora maggiore affinità dei nostri con la maestosa eclissi notturna dell’imperatore norvegese (mentre la distanza spirituale-ideologica rimane fortunatamente invariata).

Accade così di incontrare barocchismi ora lugubri, ora accecanti nella furiosa “Subterranean Initiation” e di rimanere poi coinvolti nella schiettezza punk e nel decadentismo gotico americano di “Astral Blood”. Rappresentazioni emblematiche del nuovo corso sono invece la sacralità vocale di “Woodland Cathedral” (che, però, nell’economia del disco, funge sostanzialmente da intermezzo) e  soprattutto la processione tra le nebbie di “Prayer of Transformation”, tra cadenze immobili ed intarsi essenziali di chitarra elettrica. Ma se da un lato sembra di andare in una direzione progressiva molto simile a quella indicata negli ultimi anni dai Negura Bunget, dall’altro è parecchio seducente l’idea di tracciare un’analogia con le rotte oceaniche post-death degli Ulcerate e del loro piccolo masterpiece melvilliano “The Destroyers Of All”.

Entrambe le band stanno infatti assestando durissimi colpi all’ortodossia dei rispettivi generi sfruttando la materia metal non come semplice aggressione o filiazione estetica, ma come medium necessario per raggiungere paesaggi maestosi e visioni oblique. Sta qui, oltre che nella bellezza pura della sua musica, l’importanza dell’operazione WITTR. Riuscendo a non rimanere impantanati nel manierismo di molti dei Nuovi Profeti (ce lo aspettiamo davvero un colpo di coda dei Mastodon?), scardinano la piattezza bidimensionale dell’ancien régime metallico con un connubio tutt’altro che paradossale tra concretezza e trascendenza.

85/100

(Lorenzo Centini)

30 settembre 2011

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