OKKERVIL RIVER, “I Am Very Far” (Jagjaguwar, 2011)

È destino di molti grandi quello di fare discutere e gli Okkervil River, per certi versi, grandi lo sono sempre stati. Correva l’anno 2003 quando Will Sheff, originario del New Hampshire ma trapiantato ad Austin, in Texas, diede alla luce, insieme alla sua band dal nome improbabile, “Down The River Of Golden Dreams”, opera imprescindibile della scorsa decade, che fece degli Okkervil River i caposcuola di quell’ondata indie folk che aveva come alfieri gruppi come gli ormai dispersi Bright Eyes e i sempre fecondi (ma un po’arrugginiti) The Decemberists.
Il concept “Black Sheep Boy”, uscito due anni dopo, segnó la consacrazione definitiva degli Okkervill River agli occhi della critica e del pubblico indie. La sofferta voce di Sheff si arrovellava in continui saliscendi, persa tra liriche ai confini della prosa letteraria ed atmosfere acustico-pastorali, squarciate di volta in volta da elettriche istantanee. I due successivi album, tra cadenzati call and response e sfavillanti claps, vedevano la band schiarire le fosche tinte dei propri eruditi acquarelli, tentando di cucirsi addosso un abito dal taglio piú artigianale ma pur sempre raffinato.

Un cosí lungo preambolo era quanto meno necessario di fronte ad un lavoro attesissimo come “I Am Very Far”, che segna una svolta rispetto a quanto prodotto fino ad ora dagli Okkervil River.
Se tale inaspettato cambio di rotta sia dovuto ad una latente insoddisfazione commerciale, piuttosto che all’irrefrenabile bisogno di William Sheff (sempre piú leader unico e qui anche nelle vesti di produttore) di “fare qualcosa che fosse solo per me” , è un enigma che solo il tempo potrá aiutare a risolvere.
Resta il fatto che “I Am very Far” prende clamorosamente le distanze dai dischi precedenti, risultando di non facile assorbimento per lo zoccolo duro di fan che ha amato gli Okkervil River, sia per la loro personalitá defilata sia per quel suono minimale eppure cosí incisivo.
Questa volta le parole d’ordine sono grandeur ed opulenza tanto che perfino i riferimenti a cui attingere cambiano faccia. Niente piú Wilco né Neutral Milk Hotel, ora vengono tirati in ballo i crescendo alla Arcade Fire (quelli piú altezzosi e magniloquenti di alcuni episodi di “Neon Bible”) e certe cavalcate a metá strada tra gli U2 in piena urgenza declamatoria, e lo Springsteen piú arrangiato e solenne. Willaim Sheff saluta le praterie dell’America piú rurale per imbarcarsi su un’astronave che vola verso fulgide costellazioni, composte da pianeti dagli azzimati paesaggi barocchi.
Eppure l’inizio di The Valley, tra geniali liriche wetstern (Watch the Sun switching in the sky, off and on, where our friend stands bleeding on a late-summer lawn, slicked-back, bloody black, gunshot to the head, he is falling in the valley of the rock’n’roll dead) e un riff tagliente quanto semplice, non sembra far presagire quanto avverrá in seguito, benché verso la fine del brano si possa giá avvertire quel processo di addizione strumentale che caratterizzerà quasi tutti i pezzi del disco. La successiva “Piratess” si rivela una composizione quantomeno azzardata, tutta giocata sull’interpretazione vocale di Sheff, che gigioneggia senza sosta tra mezzi falsetti e ritornelli che non partono mai, per un pezzo insolito e complesso.
Una sorta di ambiguitá d’intenti caratterizza l’intero lavoro, che a fini ricercatezze accosta spesso un’opulenza concertistica da far impallidire Phil Spector (la stucchevole “White Shadow Waltz” e la pretenziosa “The Rise” su tutte).
L’emotivitá ancestrale che scorre nelle vene degli Okkervil River, tuttavia, trova ancora la sua naturale declinazione nella limpida voce di William Sheff che, come ci suggerisce il titolo dell’album, sembra giungere da mondi lontani, immersa com’è in un marasma sonoro che altro scopo non ha se non quello di raggiungere una sorta di cosmico climax emozionale. Quando l’operazione ha successo (“Rider” e “We Need a Myth”) il risultato è notevole come sempre, benché i mezzi per arrivarci siano cosí diversi dai soliti. Quando invece la scrittura si dimostra piú stanca (la giá citata “White Shadow Waltz” e “Lay Of the Survivor”) la sostanza passa in secondo piano rispetto alla forma e l’esito è meno soddisfacente.
Ciò nonostante, scorrendo l’eterogenea collezione di brani, si inciampa presto in piccole perle che servono a ricordare quanto sia difficile trovare in giro songwriter del calibro dell’occhialuto leader degli Okkervil River. Non tutti sono in grado di scrivere una canzone come “Your Pastlife As A Blast” che, malgrado una semplicità melodica quasi disarmante, arriva dritta al cuore grazie al suo esasperato crescendo che sfocia nell’esplosione d’archi finale. Stesso identico discorso vale per il singolo “Wake And Be Fine”, la cui incisione è giá diventata leggenda: sette chitarristi, due bassisti, doppio batterista, per un pezzo caotico ed incalzante, giá un piccolo classico.
Notevole è anche la ricerca compositiva che sta alla base di una fine ballata come “Hanging Form A Hit”, che ha nell’andatura sognante e nel torbido dialogo basso – pianoforte (scordato) i suoi punti di forza.

È proprio la forza di alcuni brani a rendere il giudizio finale del disco piú che positivo, malgrado la pretenziosità della proposta rischi piú di una volta di rendere l’ascolto stancante.
Forse, non del tutto a torto, molti collocheranno “I Am Very Far” un gradino sotto ai suoi predecessori, anche se sarebbe piú giusto inquadrare questo album in una sorta di zona grigia, a metá strada fra un nuovo inizio ed una brillante, seppur incoerente, divagazione.

70/100

(Stefano Solaro)

30 maggio 2011

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