ARCADE FIRE + MODEST MOUSE, I-Day (Bologna, 2 settembre 2010)

Per provare a descrivere un concerto degli Arcade Fire servirebbe quantomeno freddezza. Se la catarsi da tragedia greca della loro memorabile ultima apparizione in Italia a Ferrara aveva lasciato spazio il giorno dopo allo sballo di Daft Punk ed LCD Soundsystem al Traffic, questa volta si ha più tempo per ammortizzare il tutto. Nello stanco finale d’estate emiliano, torna quello che era noto come l’Independent Days Festival. Una due giorni che era solita portare nel parco ai più famoso per la Festa dell’Unità più grande d’Italia. E che come molte realtà tra virgolette alternative del belpaese si è trasformata in un’asta al ribasso nel rapporto notorietà/qualità fino all’incredibile chiamata dei Deep Purple in sostituzione degli Oasis freschi di scioglimento nella prima e per fortuna tultima edizione milanese della rassegna.
In questa due giorni si provano a rinverdire i fasti del passato. Non solo quello che nel bene o nel male rappresenta il nome di punta della scena musicale degli ultimi anni, ma anche i Modest Mouse, un nome di riferimento in tempi in cui gli Arcade Fire potevano avere come massima aspirazione qualche esibizione in famiglia tra parenti e amici dei coniugi Butler. Storie di dinamismo della scena statunitense, al cospetto del provincialismo italiano fatto di band poco utili alla causa, quale i Joycut cui tocca il compito di apertura, seguiti dagli impalpabili Chapel Club. Interessanti revivalist tra Smiths e shoegaze britannico penalizzati da orario e volumi altrettanto impalpabili. Così come i Fanfarlo che più modernamente si rifanno ad Arcade Fire e Beirut, con rassicuranti canzoncine indie-pop dal marchio inequivocabile Ikea. Non a caso il leader e titolare del progetto è uno svedese di stanza a Londra. “I’m A Pilot” è uno dei brani indipendenti più belli scritti negli ultimi tempi. L’atmosfera pomeridiana non aiuta a ravvivare la loro esibizione, né lo spazio aiuta l’approccio sommesso e intimista degli estratti dal buon esordio “Reservoir”. “Fire Escape”e “Sand Ice” denotano un’ottimo songwriting. Da risentire altrove.

Quello che a metà pomeriggio si percepisce fortunatamente come un problema di volumi bassi, si trasfigura nel drammatico impatto dei Modest Mouse con il festival. Un vero peccato. Anche perché Isaac Brock non è certamente il più noto dei buontemponi. E così il suo scazzo innato si trasforma in un distacco col pubblico quasi forzato. Pubblico che si accorge dei casini all’impianto solo quando durante “Dashboard”, apertura tutt’altro che perla ai porci, l’amplificazione si trasforma improvvisamente da mono a stereo. La voce di un Brock inizialmente sottotono fa il resto. Ci si spazientisce ed è un peccato perché avvicinandosi al palco si percepisce come il glorioso collettivo di stanza in Oregon di perle ai porci ne regalerà non poche. “3rd Planet” è sempre un brano da pelle d’oca”. E poi ancora “King Rat”, “Paper Thin Walls”. Una claustrofobica “Tiny Cities Made Of Ashes” che avvolge l’arena di una nebbia psichedelica d’altri tempi. Il crescendo annichilisce. Nei momenti più strumentali senza i deficit d’impianto contro cui combatte incessantemente Brock, Ma coi tempi che corrono, deve arrivare “Float On” e il suo puttanismo dall’aria british per svegliare i distratti avventori pre-Arcade Fire. Johnny Marr è ormai fuori dal progetto, impegnato – conetnto lui – coi Cribs. Peccato, perché certe svisate smithsiane nei momenti più uptempo non sarebbero affatto dispiaciute. Meglio ricordarli per “Bukowski”, “The View” e “Spitting Venom”. La riprova che accanto a certi nomi, in Italia non andrebbe messa alcuna spalla di qualità. Frega a pochi.

Non che gli Arcade Fire siano diventati nazionalpopolari. Per fortuna San Siro è ancora un’ipotesi lontana (anche se i bassi volumi di stasera purtroppo non avrebbero da che invidiare). Non sono ancora diventati quello che in Italia sono i Coldplay né rischiano di diventare i Muse. Ciò malgrado, come dimostrano i bagni di folla dall’altra parte dell’oceano (vedi concerto in diretta youtube al Madison Square Garden), ne abbiano a pieno le doti. La carta d’identità è una garanzia. I canadesi non sono fatti per queste cose. Probabilmente non diventeranno nemmeno gli Springsteen di Canada malgrado nel loro paese abbiano il seguito di Ligabue che sarebbe una storia troppo lunga da spiegare.Gli Arcade Fire non sono un fenomeno da baraccone né corrono il rischio di diventarlo. Basta guardarli. Vedere come sono conciati. Vedere le loro facce. Un rapporto con il pubblico che nei momenti più empatici tradisce un’emozione da esordienti. Che una coppia di due inquietanti figuri, un po’ bruttini, ma neanche tanto bizzarri da diventare fenomeno mediatico, è una storia che persino in Inghilterra avrebbe preso forma negli anni di Mtv e myspace. Ma se negli ambienti più credibili – nessun riferimento a Chris Martin, piuttosto a David Bowie – si parla di miglior band degli ultimi anni o di “The Suburbs” come il nuovo “Ok Computer” (altra cazzata da denuncia, sempre inglese, ma di sponda BBC) un motivo in fondo ci sarà. Soprattutto perché a differenza dei sopra citati e di altri campioni affini d’oltreoceano quali The Killers e Kings Of Leon, sarebbe una scommessa persa in partenza quella di trovare in loro la più implicita dimostrazione di svolta mainstream. Semmai vi si sono allontanati con “Neon Bible” e anche con il terzo lavoro (complesso, iperarrangiato e di ardua metabolizzazione iniziale). “Funeral”, come impatto ritmico e melodico, entrava nelle vene dopo mezzo ascolto. E forse per questo l’esordio resta il loro capolavoro.

E dal vivo, non ce ne voglia chi conosceva solo i brani degli ultimi due album e l’ormai televisiva “Rebellion (Lies”), si avverte ancora il valore aggiunto dell’esordio. “Ready To Start” e “Month Of May” non hanno nulla da invidiare come carica e spinta. Soprattutto infilate in un’accoppiata iniziale da manuale del live. Ma quando sbucano fuori le inimitabili nenie da catechisti non praticanti del post-punk, è tutt’un altro impatto emotivo. Il leitmotiv in fondo sono le emozioni. Un live degli Arcade Fire a tratti si trasforma in un continuo mordersi il labbro inferiore. Se pure una “Tunnels” fosse suonata con qualche imperfezione (cosa che non succede mai, e infatti non succede”) sarebbe ingeneroso e francamente stupido darci peso. Il groppo al cuore è inevitabile. Così come un’esecuzione quasi nickcaviana di “Haiti”, ruvida, rabbiosa e spietata.
In questa dimensione più da arena, nel loro disco paradossalmente più teatrale, Regine e Win guidano alla perfezione gli eclettici componenti di questa incredibile orchestrina che ha provato a dare l’ultima scossa defibrillatrice al rock. Un teatro all’aria aperta. La strada resa palcoscenico. Sensazione a cui concorre l’impagabile scenografia da highway-non-luogo. E i penetranti video di sfondo tra il naif e un minimalismo iperrealista da pelle d’oca. E poi i cori, costellazioni di bagliori di fotocamere digitali, i battimano continui, sentiti e a tratti eccessivi che accompagnano i motivetti più noti e i nuovi brani dell’anomala brigata di Montreal dimostrano che l’incantesimo non si è spento. E non si spegnerà per un po’. Gli antiestetici balletti di Regine, si pensi a una sorta di epic fail con a tema Bjork, che accompagnano “The Sprawl II” sono la sintesi di tutto. Gli Arcade Fire non hanno inventato nulla, ma hanno delle canzoni e hanno della sostanza. Il brano è infatti un degno remake delle caramellose e avvelenate hit di Blondie, ma si sposa a pieno con questo approccio da grandi platee.

Lo dicono i finali, un Butler che non ha paura del pubblico come quando sembrava un gigante alienato profeta di chissà quale sventure e che si mantiene su livelli di cantautorato eccellenti (la titletrack è già antologia). Lei, svampita e decisiva, fa da seconda batterista senza vergogne. Gli altri fanno tutto e il contrario di tutto con la consueta compattezza e un persistente, stridenti tappeto di archi a riempire ogni spazio vuoto alla stregua dello shoegaze. Il limite? Inutile nasconderlo. “Suburban War” e “Modern Man” pur ineccepibili nel loro incontro-scontro in chiave Arcade Fire tra la dimensione-boss e la dimensione-loner, non valgono i riti collettivi di purificazione di “Intervention” e “No Cars Go”. E “We Used To Wait” farà pur invidia agli U2 che non scrivono pezzi del genere ormai da lustri, ma scivola in un ideale dimenticatoio emotivo quando seguono come due benedizioni (o maledizioni) piovute dal cielo l’apocalisse di “Power Out” e l’immediata grazia di “Rebellion (Lies)”. Legate da un fragoroso frastuono da My Bloody Valentine per un finale da 35 minuti di applausi.

Ne passano solo due e il bis, mica a caso, pesca solo dai primi due album. “Keep The Car Running” e l’inevitabile “Wake Up” urlata in un coro che si propaga in tutta la pianura padana e oltre, ricongiugendosi con quel whooo che ancora aleggia tra i vicoli di Ferrara.
La targhetta che ci piace immaginare in Piazza Castello a Ferrara in onore della precedente ultraterrena apparizione italiana, resterà dov’è per improbabili turisti di chissà dove che chiederanno informazioni su quell’undici luglio del 2007. Questa di Bologna è una sorta di rievocazione collettiva di un culto misterico sempre meno misterico, un remake di un classico del passato che non può convincere fino in fondo. Ma al di là dell’efficacia della rievocazione, il cuore dice che il miracolo degli Arcade Fire non è in discussione.

(Piero Merola)

MODEST MOUSE
Dashboard
Dramamine
Black Cadillacs
3rd Planet
King Rat
Tiny Cities Made Of Ashes
Here’s To Now
Trailer Trash
The View
Fire It Up
Bukowski
Float On
Paper Thin Walls
Spitting Venom

ARCADE FIRE
Ready to Start
Month of May
Neighborhood #1 (Tunnels)
Crown of Love
Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)
The Suburbs
Suburban War
Intervention
Modern Man
No Cars Go
Haïti
We Used to Wait
Neighborhood #3 (Power Out)
Rebellion (Lies)
——-
Keep the Car Running
Wake Up

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16 settembre 2010

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