ARCADE FIRE, “The Suburbs” (Merge, 2010)

Il primo segnale per quei dischi destinare a segnare i tempi è la copertina. Negli Anni Zero del download e dei singoli ascoltabili da youtube, gli Arcade Fire non hanno mai rinunciato al fascino concettuale del prodotto. Che va dall’artwork, offerto questa volta in otto diverse edizioni della suggestiva istantanea vintage di una macchina ferma in una periferia senza tempo. Un impatto che fa tanto Neil Young e non solo per una banale associazione tra canadesi quanto per l’ideale passaggio di testimone come nome più rappresentativo di una terra che da Leonard Cohen in poi ha dato alla musica almeno quanto tutta l’Europa messa insieme. E non solo perché oggi in Nord-America gli Arcade Fire rappresentano quello che dalla sponda opposta dell’Atlantico rappresentano i Coldplay.

I migliori interpreti del rock partoriti dallo scorso decennio riflettono a pieno le luci e le ombre della musica contemporanea. Autoprodotti, ma tutt’altro che lo-fi. Indipendenti, ma da classifica. Pienamente figli di questi tempi nel revival dei grandi vecchi tanto che Win Butler rispetto a questo terzo lavoro si è sbilanciato parlando di un mix tra il Neil Young e i Depeche Mode. Ma allo stesso modo conservatori nel valore sacrale dato al concept. “Black Mirror”, traccia d’apertura di “Neon Bible”, sembrava seguire idealmente la scia dei toni dell’ancora ineguagliato “Funeral”. “No Cars Go” e “My Body Is A Cage” in chiusura dello scorso album non solo fanno da tramite tra le inquietudini del bizzarro mondo di fiabeschi vicinati dell’esordio, ma tra “In The Backseat” e le lettere dalla periferia del nuovo “The Suburbs”. Con un filo conduttore vecchio come il mondo, quello della strada. Nel 2010 sembra una ridicola filologia esoterica da fine anni Sessanta. Ma, in fondo, in questo modo un po’ retrò di concepire l’album, gli Arcade Fire, come oggi soltanto i Radiohead e pochi altri, hanno fatto riscoprire quel gusto dell’LP, fatto di attese, sessioni prolungate di approfondimento delle tracce e continui ripensamenti di ascolto in ascolto. A questo ha certamente contribuito la durata e il numero dei brani. Quindici istantanee urbane dalla suburbia a metà strada tra le fughe dalla città di Neil Young e lo Springsteen di “The River”. Sarà pure un riferimento scomodo per i puristi indie, ma il boss dallo scorso album aleggia ancora nella visceralità dell’orchestrina semifamiliare di Montreal. Deviando in parte da quelle spigolose dissonanze wave che sporcavano “Funeral”. In una formula in grado di unire giovani assetati di inni generazionali e adulti nostalgici di Bowie, Echo & The Bunnymen, Talking Heads e post-punkers vari.

Il viaggio nella periferia si apre con la splendida titletrack. Essenziale e dimessa. Chitarra acustica, archi, piano e la narrativa voce di Win. Un’incantevole “After The Gold Rush” quarant’anni dopo.

Si parlava di Springsteen nel taglio smaccatamente nord-americano dei coniugi Butler e soci. In “Modern Man” e soprattutto nelle elegie da introspettiva desolazione urbana di “City With No Children” e “Suburban War”. Ma i sette hanno costruito un’identità sonora oltre che extra-musicale attorno al nome preso dalla storia di un incendio in un porticato raccontata a un piccolo Win che ci piace credere già immaginifico e turbato. Così non possono che suonare Arcade Fire nei crescendo catartici e orchestrali come mai in passato. “We Used To Wait” dimostra come si allontanino da quello che potrebbe sembrare uno scomodo, quanto anomalo punto di riferimento per l’attualità della loro proposta musicale. Non saranno sconvolgentemente innovative. O più semplicemente non vogliono esserlo, ma le canzoni degli Arcade Fire spesso funzionano innanzitutto come canzoni. Il resto lo fa una carica emotiva penetrante, a tratti perforante per il suo respiro così solenne e liberatorio. E quasi mai barocco. Malgrado la maniacale cura degli arrangiamenti, una tendenza chamber-pop in parte iniettata dall’illustre connazionale, compositore degli arrangiamenti orchestrali, Owen Pallett, al secolo Final Fantasy. Forse solo nella teatrale “Rococo” un’improbabile ponte tra glam e Sigur Ros, esplodono colori variopinti e sfarzosi. Ma il titolo è un onesto avvertimento. E poi già in “Wake Up” o in bibbie al neon quali “Intervention” e “Keep The Car Running” avevano ceduto al fascino dell’operetta.

Le chitarre comunque non smettono di grattare e graffiare. Come nella perentoria tempesta shoegaze di “Empty Room”. Dagli ubriacanti violini introduttivi, le chitarre piovono giù straripanti. E insieme la voce di Régine rendono il viaggio mistico deviando percorsi suburbani verso traiettorie celesti. O nel post-punk di “Month Of May” da highway in alta velocità. Come se i sette sotto acidi, non abituati alle droghe, cedessero a uno scioccante delirio stoner. O in “Ready To Start”, sporca quanto i brani più ruvidi del secondo album, ma con una linea melodica vocale che darebbe la dimensione di questa sedicente influenza dei Depeche Mode. Certamente più chiara nell’uso delle tastiere e nell’intermittente synth in chiusura delle strofe. Anche “Half Light II (No Celebration)” è un omaggio alle derivazioni più torbide degli Arcade Fire. Come se gli U2, accantonato il recente buonismo senile, si concedessero a una ritmica da lato oscuro degli anni Ottanta e alle chitarre tridimensionali ponte tra dream pop e shoegaze dei My Bloody Valentine. Il risultato è a metà strada tra Psychedelic Furs e pura nostalgia synth-pop. Nostalgia che esplode in una delle tracce meno Arcade Fire del concept: “Sprawl II (Mountains Beyond Mountains)”. Già in “Black Wave/Bad Vibrations” Régine aveva dato un saggio delle sue doti vocali più svampite e ammiccanti. Ma in questo ammaliante Blondie-revival, delicato e sognante, i risultati sono memorabili.

Che fine hanno fatto le ballad à la Arcade Fire, ci sarebbe da chiedersi. Le toccanti parti prime di “Sprawl” (Flatland) e “Half Light” accontentano gli animi più straziati e malinconici. La seconda unisce i Cocteau Twins al folk orchestrale, l’altra sembra rivisitare i melodrammi di Bowie. Mentre “Wasted Hours” e “Deep Blue” chiudono il quadro in degna tradizione-Neil Young.

E infine il minuto e mezzo orchestrale da finale in sospeso che chiude l’esaltante viaggio suburbano da dov’era iniziato a dare a “The Suburbs” la statura di colonna sonora da eterno ritorno da e verso gli Anni Dieci.

(Piero Merola)

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