TEENAGE FANCLUB, Shadows (PeMa / Merge, 2010)

Ci eravamo tanto amati. Quanto vorrei non trovarmi nell’orrenda parte del boia di un gruppo che ho adorato visceralmente nonostante abbia vissuto in prima persona soltanto il recente passato, peraltro tutt’altro che splendente. Ripenso allo show di “Bandwagonesque” di quasi quattro anni fa e non riesco a credere di trovarmi oggi di fronte a quelle stesse facce sorridenti, capaci di emergere da Glasgow in uno dei periodi più felici per l’indie vecchia maniera. Resteranno alcuni dei dischi che gli anni ’90 coccoleranno in eterno, sperando che nessuno si chieda dove e come ha iniziato a discendere la loro parabola. A onor del vero i semi erano già maturi perchè tale scenario fosco si materializzasse a breve: dieci anni, due dischi (che fanno tre) non esattamente all’altezza di un passato che non tornerà. E che probabilmente non aveva senso rievocare. Il problema, però, è che non ero semplicemente pronto ad alzare bandiera bianca in maniera così lucida e disincantata.

Proviamo a parlare di musica. Di ritornelli accattivanti e schitarrate vecchia maniera, di singoli dal tiro perfetto e di quell’attitudine figlia dei migliori Byrds e soprattutto dei Big Star (Alex ci manchi più che mai). Niente, sto ancora pensando a ciò che era e che si scontra ora con il refrain di “Sometimes I don’t Need to Believe in Anything” cacciato a forza in una metrica che un titolo così lungo sconsiglierebbe a chiunque di inserire interamente. Sembra che nemmeno Norman Blake ci creda davvero. Anche Gerard Love e Raymond McGinley tentano di ravvivare un’inerzia più che mai fiacca e lontana dall’ispirazione. Episodi acustici che non lasciano il segno, tentativi modesti (o maldestri?) di mostrare il proprio lato intimista sopra cui aleggia invece un’atmosfera di consapevole resa. Solo “Baby Lee” e “Shock and Awe” funzionano bene nella loro semplicità intrisa di quel retrogusto malinconico tanto scozzese. Ma sono fuocherelli isolati.

E insomma la notizia è di quelle che fanno male, perchè ai Fannies si legano tanti ricordi e soprattutto quando vieni dalla Creation sei comunque un giusto a vita senza bisogno di ulteriori riconferme. Questa volta, però, tentare di tenere in piedi anche solo parte della baracca appare un’impresa francamente ardua. Forse tra un paio d’anni si potrà rivalutare il canto del cigno (ammesso che sia tale) per la sua onesta deposizione delle armi. Il presente vede invece un gruppo non più in grado di incidere nè tantomeno di avvicinarsi al disco-compitino con almeno due pezzi da ricordare e qualche intuizione in mezzo a una maggioranza di riempitivi non troppo molesti. E quando succedono cose di questo tipo non resta che ammainare tristemente la bandiera con la croce di Sant’Andrea abbandonandosi all’unica considerazione possibile: boys, the ride’s over.

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