PATRICK WOLF, The Bachelor (Bloody Chamber Music, 2009)

Il prolifico songwriter della nuova scena britannica aveva in mente un doppio, non contento di aver realizzato, poco meno che ventitreenne tre album che hanno sconvolto e ridisegnato i canoni del cantautorato d’oltremanica. Polistrumentista eccentrico, narcisista, arrogante al punto giusto, dopo “Lycanthropy” e l’indiscusso capolavoro “Wind In The Wires”, con “The Magic Position” aveva in parte ripercorso i sentieri sintetici dell’esordio. Senza mai annoiare. Con una libertà espressiva invidiabile nell’andare per la propria strada ostentatamente contro corrente rispetto ai trend dei suoi connazionali. In un inaspettato ridimensionamento del suo ego direttamente proporzionale all’incredibile talento, il giovane londinese ha deciso di spezzare in due la sua opera quarta per alleggerire l’ascolto. Quello che sarebbe dovuto essere un polpettone intitolato “Battle”, in due episodi dei quali “The Bachelor” rappresenterebbe il lato tormentato, malinconico e accidioso della sua multiforme vena. Ispirato da un periodo di depressione di certo non addolcito dallo spiacevole e umiliante episodio del concerto di Madonna dello scorso autunno, quando lui e il suo compagno furono brutalmente aggrediti dai buttafuori, accusati di effusioni omosex in platea (vedi news). Due dei brani che hanno anticipato questo quarto lp, effettivamente, facevano prefigurare una svolta piuttosto decisa nelle coordinate del sound di Wolf.

“Battle” dava l’idea di un’improbabile jam session tra Pulp e Nine Inch Nails. Cupa e industriale, originale nella struttura come nella scelta dei suoni, era stata seguita dal primo singolo videoclip ufficiale, “Vulture”, scritto in collaborazione del suo idolo d’adolescenza Alec Empire. Ugualmente sintetica e sospesa tra fatali suggestioni EBM e un immediato impatto da classico synth-pop. Ballabilissima in quei synth irresitibili quanto l’andamento da anni ’80 come scelta di vita. Gli arrangiamenti evidentemente più electro e compiaciuti rispetto agli episodi sintetici che non aveva mai disdegnato. Sembrerebbe insomma che la volontà di calcare la mano abbia preso il sopravvento. Con effetti tutt’altro che sgradevoli visto che il suono risulta fresco e originale malgrado i punti di riferimento (Depeche Mode, Human League, Soft Cell) siano alla luce del sole. L’introduttiva “Hard Times” nel suo elegante incastro di trame orchestrali e ritmiche electro-rock, si candida senza paura tra le canzoni-top del 2009. La voce dà il meglio e anche di più. L’equilibrio nella struttura dei brani è solidissimo. “Who Will” sembra un remix di una band a caso della Morr Music di un canto tradizionale black. Altri sprazzi che impressionano per originalità sono senz’altro l’improbabile glitch cameristico di “Count Of Casualty” e l’irrequieto techno-pop di “Oblivion” che si avvale dell’altrettanto improbabile cameo dell’attrice Tilda Swinton.

Sembra davvero di avere davanti il Bowie del nuovo secolo. Difficile trovare un momento in cui la vena palesi qualche sintomo di stanchezza, malgrado non sia un disco d’esordio e anzi sia arrivato dopo tre album e una dozzina di veri capolavori.

E’ bene precisare, infatti, come, accanto ai brani sullo stile dei suddetti in cui il fascino classico si sposa alla perfezione con il fascino digitale, ci siano brani più vicini al suo stile. Nella titletrack tornano alla ribalta le fascinazioni celtiche tipiche di “Wind In The Wires” in un’intensa folk-ballad che vede il decisivo apporto dell’abrasiva voce di Eliza Carthy, polistrumentista già tra i credits di Wilco e Paul Weller. Non mancano mini-suite tra le suggestioni post-romantiche à la Divine Comedy e decadentismo teatrale figlio di Scott Walker. “Thickets”, “The Sun Is Often Out”, “Theseus”, “Blackdown”. Inutile sprecare parole di troppo, più semplicemente delle ballad alla sua maniera cui gli appassionati sono abituati fin troppo bene e che probabilmente stupiranno non poco quanti si sono avvicinati a Wolf per il videoclip fetish-bondage di “Vulture”, da lui diretto.

Brani apparentemente semplici, carichi di pathos e fascino cinematografico. La componente più moderna lascia spazio alla sua voce e alla sua viola, accompagnata da controcori e incursioni sinfoniche da pelle d’oca. Questo inebriante susseguirsi e inseguirsi di intuizioni classiche e contemporanee vede il cerchio chiudersi proprio nel brano di chiusura. “The messenger” passa il testimone al festoso seguito “The Conqueror” atteso per il 2010 sintetizzando al meglio questa originale quanto efficace coesistenza.

In uscita sempre per l’etichetta da lui fondata e retta dai finanziamenti dei fan che vogliono rendersi azionisti, la Bloody Chamber Music. Nome che come pochi riesce a dare un’idea così eloquente dell’ineffabile proposta musicale di uno dei rari geni musicali partoriti dal decennio.

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