BOOKA SHADE, The Sun And The Neon Light (Get Physical, 2008)

“Esercizio di stile”, leggerete qua e là nelle recensioni di “The Sun And The Neon Light”. Non credeteci. Quando l’elettronica non punta né a far ballare né a stupire con sperimentazioni difficilmente si sprecano aggettivi superiore al “gradevole” o “grazioso”. O, meglio, la critica “ufficiale” lo fa solo se ti chiami Röyksopp (gli Air lasciamoli stare, l’ossequio inevitabile ad ogni loro prova è figlio del fatto che sono di un’altra categoria).

I Booka Shade non si chiamano, appunto, Röyksopp e la loro algida provenienza crucca li fa guardare di sbieco perché cercano di suonare con classe, quella che si deve esibire negli abiti e nel savoir-faire in una serata importante. “Cavolo”, sembra di sentire tra le righe, “siete tedeschi e potete fare la Love Parade o i Kraftwerk, non Jean Michel Jarre. L’eleganza nell’elettronica lasciatela ai francesi”.

Si sta estremizzando, ovvio. Però è difficile non cogliere la amabile umanità dei violini empatici di “Outskirts” o la spensierata ebbrezza alcolica di “Charlotte” a meno di non essere – se non in mala fede – quantomeno prevenuti in steccati mentali un po’ limitanti.

“The Sun And The Neon Light” non cambia le regole del gioco, ma incarna una buona realizzazione di quello che dovrebbe fare la musica, così come ogni altra arte, del resto: tendere al “bello”. Non si tratta di manierismo bensì piuttosto, per rimanere a categorie pittoriche, di neoclassicismo. Musica che – nel riferirsi a soluzioni “classiche” – è pienamente consapevole di se stessa.

Compatta, perché le quattordici tracce sembrano altrettanti capitoli di un film in cui la trama dell’episodio è inestricabilmente legata a quello precedente. Con un’eccellenza: “Control Me” sembra guardare ai Goblin e dipinge atmosfere che, così azzeccate, non si sentivano da “Sombre Detune” dei Röyksopp o meglio da “The Virgin Suicides” sapete di chi.

Un electropop neoclassico che assomma in sé più e più influenze (ambient, downtempo, glitch, IDM…) ma che, in fondo in fondo, vorrebbe essere lineare e semplice come il pop di “Play” di Moby.

Altro che “esercizio di stile”, dunque. Piuttosto, un disco con stile.

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