DANIELE LUTTAZZI, Money For Dope (Virgin, 2005)

I comici hanno sempre ascoltato musica. Molti sono stati prima dei musicisti e poi dei comici. Altri sono riusciti a far emergere la loro enorme passione per questa attraverso il loro mezzo (come dimenticare Gene Gnocchi e il suo “Perepepe”? Inoltre, si vocifera sia un grande fan della scena indie australiana degli anni ’80… Stems, Lime Spiders, Hoodo Gurus). Ed ecco che dopo i dischi folk-casarecci di Flavio Oreglio arriva la grandeur di Broadway a firma Daniele Luttazzi.

Introdurre il personaggio di Luttazzi sarebbe inutile, la sua verve e la sua filosofia professionale sono cose note ai più, quello che sorprende è invece trovarsi tra le mani un lavoro di tal guisa. Un’opera che si muove con nonchalance attraverso anni di tradizione della canzone popolare americana, che rimanda con enorme fascino ai roaring twenties e Francis Scott Fitzgerald, al jazz bianco e al crooning, a Ira Gershwin e lo show-biz dei grandi teatri della Grande Mela. Questo è altro in “Money for Dope”, risultato di un ripescaggio di Luttazzi di alcune sue canzoni scritte tra il 1979 e il 2002. Un disco che svela la sua doppia natura in una malinconia di fondo che si insinua tra le pieghe di una musica spesso propria del varietà popolare, fino a raggiungere l’apice nella title-track, canzone scritta all’indomani della morte per overdose di un’amica di Luttazzi.

Un disco da scoprire, popolare sì, ma non per tutti, che colpisce per la freschezza anacronistica degli arrangiamenti e per l’atmosfera dimessa che pervade tutti i suoi 43 minuti. Ed è sorprendente notare come Luttazzi riesca a colpire ed affascinare anche quando non c’è assolutamente niente da ridere.

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