PATRICK WOLF, Wind In The Wires (Tomlab / Wide, 2005)

Sono passati poco più di dodici mesi dall’esordio “Lycanthropy”, che aveva ammaliato e non poco per la sua capacità di mescolare la natura nuda e cruda del folk con la modernità oramai quasi vintage di un Atari ed ecco che il ventenne Patrick Wolf torna a far sentire la propria voce. E’ opinione sufficientemente diffusa affermare che l’opera seconda è sempre la più difficile da licenziare, ma Patrick regala alla storia della musica e a noi che ne stiamo vivendo in diretta una minima porzione, un vero e proprio capolavoro.

“The Libertine”, brano posto in apertura e scelto anche come singolo di lancio, delinea già con eccezionale chiarezza la grandezza dell’album: accenni di pianoforte, struggenti violini est-europei ad anticipare l’irrompere irruento e convulso della batteria mentre la voce incredibilmente matura e profonda del giovane cantautore che declama di aver deciso di “correre il rischio di essere libero”. Sembrerebbe la più classica dimostrazione di insoddisfazione e di clausura adolescenziale se non fosse che la frase sembra particolarmente adatta anche al contesto strutturale dell’album: la libertà ad esempio di abbandonare l’Atari che tanta critica aveva elevato a simbolo di una nuova genia di cantautori e di affidarsi quasi esclusivamente a strumenti cameristici come archi e pianoforte.

La capacità strabiliante del ragazzo di giocare con le matrici del pop è identificabile nel romanticismo estremizzato e senza compromessi di “Teignmouth”, nella title-track che sembra un Marc Almond educato negli anni ’90 ma soprattutto nel sussurrato e disturbato crescendo di “This Weather”, destinato a trovar sempre più corporeità e a esplodere. Anche quando è l’anima più attaccata all’essenzialità e alle radici del suono a prendere il sopravvento Wolf si dimostra lungimirante e odiosamente ispirato: ascoltare il canto arcaico di “Ghost Song” o lo scarno violino di “Eulogy” per credere. E perfino quando si incorre nei bozzetti, negli istanti, negli accenni (come in “Apparition” e “The Shadow Sea”) di canzoni si corre il rischio di commuoversi. E allora c’è bisogno di affidarsi alla scorza dura e compatta di “Tristan”, rabbiosa testimonianza di una mente che non ha ancora trovato la sua calma, o almeno non del tutto. C’è ancora tanto fragore, tanta malinconia, tanto pathos.

Patrick Wolf, inglese appena ventenne, ha le carte in regola per prendere le redini del pop contemporaneo e asservirlo alla sua volontà. Sempre che non preferisca continuare a “correre il rischio di essere libero” e stupirci di nuovo. Chissà…

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