TINDERSTICKS, Waiting For The Moon (Beggars Banquet, 2003)

Il problema con i Tindersticks è che sai già cosa aspettarti da un loro disco. Non che sia necessariamente un male, solo che talvolta nei loro ultimi lavori il mestiere sembra prevalere sull’ispirazione.

Come per tanti altri artisti, uno su tutti Leonard Cohen, si ha l’impressione che il gruppo inglese riscriva le stesse canzoni ogni volta. Soltanto che in qualche caso sembra aver smarrito lo smalto di un tempo. Così se il precedente “Can Our Love” mostrava una svolta soul che aveva sorpreso in modo piacevole, qui i Tindesticks tornano sui loro temi comuni, le loro canzoni intrise di colori scuri, alcool e tabacco, e quell’atmosfera noir che tanto piace ai loro estimatori.

Il tutto si concretizza nell’apertura del disco, la splendida “Until the Morning Comes”, una ballata dall’aria dolcemente sinistra che evoca un intreccio tra amore e morte degno del miglior Nick Cave. E’ il brano più riuscito di tutto “Waiting for the Moon”, che ha i suoi momenti migliori in ballate come “Sometimes It Hurts”, in cui Stuart Staples duetta con Lhasa De Sala, e “Trying to Find a Home”. Qui sta il vero talento della formazione dei Tindersticks, nel loro tono impregnato di malinconia.

Quando il gruppo si fa prendere la mano e si abbandona alle atmosfere tetre, allora il disco sembra scorrere verso suoni sterili e già sentiti,una brutta copia dei pezzi di un tempo. Non convince “My Oblivion”, che lungo i suoi setti minuti di orchestrazioni non riesce a catturare il fascino dei vecchi Tindersticks, quelli dei primi due splendidi dischi, per intendersi. Allo stesso modo “Just a Dog” con il suo andamento tra folk e vecchio jazz più che un piacevole diversivo dà l’idea di essere fuori posto. Meglio allora il frammento essenziale che dà il titolo al disco e la sua atmosfera di incanto.Insomma tra molte luci e qualche ombra.

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