LULLABY FOR THE WORKING CLASS, Blanket Warm (Bar/None Records, 1996)

Dietro il rock acustico e commerciale di Dave Matthews e della sua Band esistono realtà molto più piccole e originali. Ne sono un esempio calzante i Lullaby for the Working Class (che nome eccezionale!), frutto del genio di due ragazzini, Ted Stevens (classe 1974, voce e chitarra) e Mike Mogis (1975, chitarra, banjo, mandolino, batteria, xilofono, organo e percussioni) con la passione per il country, il pop e l’indie rock. Sì, perché pur usando strumenti esclusivamente acustici (tra i musicisti addizionali ci sono un bassista, un altro batterista e poi via con tamburi, violini, violoncelli, clarinetti e tromboni), ai Lullaby non dispiace ispirarsi anche alla scena del rock underground statunitense. Anche se a rimanere veramente impresse nella mente sono le melodie dolci e complesse di canzoni come “Good Morning”, “Honey. Drop the Knife” e “Three Peas in a Pod”.

La trasposizione acustica del furore rock e delle distorsioni appare più evidente nell’incedere di “Rye”, “Queen of the Long-legged Insects” e “The Wounded Spider”, incalzanti, tese, vibranti. Opere rock perfette se non fosse per quel modesto particolare di non possedere nessun canale aggiunto a quello della chitarra acustica. I testi, importanti e profondi, non fanno altro che arricchire un materiale già eterogeneo e raffinato. Reso ancora più incredibile dai veri capolavori dell’album: la straordinaria ballata “Turpentine”, così densa di emozioni, carica, ricca, dolce, dolente, l’elegante e malinconica “Spreading the Evening Sky with Crows” (“no woman, she just told me”) e la poetica e straziante “The Drama of Your Life”.

Tutte incentrate sul difficile rapporto di coppia e sulle esigenze dell’individuo di fronte allo strapotere dell’economia nella vita sociale statunitense, le canzoni si susseguono tranquillamente, immergendo l’ascoltatore in un clima di calma apparente, di desolazione, capace ora di immaginare i grandi spazi della provincia americana ora le sue solitudini (la cover dell’album è un simbolo dell’apatia). Critici verso il potere statunitense, studenti universitari pregni di ideali e di cultura, Stevens e Mogis non presentano un mondo cinico e crudele, piuttosto preferiscono soffermarsi sull’incapacità di comunicare che quel mondo ha prodotto. E lo fanno sussurrando e chiudendo il tutto, metaforicamente, con l’organo e lo xilofono su un coro di cicale notturne.

Un album eccezionale, tenero e profondo, maturo e malinconico. Da avere assolutamente (anche se la ricerca può essere snervante).

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