GEDDY LEE, My Favorite Headache (WEA/Atlantic, 2000)

La storia del rock è piena zeppa di dischi solisti inutili, realizzati da annoiati membri illustri di altrettanto illustri band. Chissà perché, ma in questi dischi manca sempre quella scintilla, quel guizzo creativo che ci ha fatto amare il lavoro di quell’artista all’interno di un gruppo.
Geddy Lee, poliedrico cantante-bassista-tastierista dei Rush, dopo più di vent’anni di onorata carriera, giunge al suo primo lavoro solista, “My Favorite Headache”. E qui arrivano le domande più scontate: è come un disco dei Rush? È diverso dai dischi dei Rush? È l’album di preparazione al nuovo lavoro dei Rush? Si sono sciolti i Rush? Chi sono i Rush? A questi quesiti, Geddy Lee risponde con un album la cui prima qualità è senz’altro l’onestà. Lee non vuole strafare, non vuole stupire nel tentativo di affermare: “Sono io i Rush!”. “My Favorite Headache” presenta un equilibrio classico tra i vari elementi che lo compongono: tecnica e cuore, durezza e melodia, complessità e immediatezza.
Abbandonati momentaneamente i suoi due fidi compagni, per questo lavoro Lee si avvale della collaborazione di importanti musicisti, anch’essi portati per il polistrumentismo e l’estrema versatilità: Ben Mink (F.M., K.D. Lang) e il batterista dei Pearl Jam e Soundgarden Matt Cameron. Ciò che ne risulta è uno dei più bei dischi rock dell’anno.
Volendo etichettare a tutti i costi questo genere (e soprattutto tenendo ben presente i Rush), potremmo parlare di “rock progressivo”, anche se negli ultimi anni questo filone non ha presentato esempi di qualità così elevata come in questo caso.
Geddy Lee, come se ce ne fosse stato bisogno, si riconferma come un raffinatissimo autore. I brani, in pieno stile Rush, hanno un “tiro” ineguagliabile. Canzoni come la title-track, “The Present Tense”, “Moving To Bohemia”, “Home On The Strange” sono belle cavalcate lungo le quali non c’è spazio per interminabili assolo o boriosi fill di batteria. A differenza di tanti dischi solisti, qui non prevale alcun strumento; il gruppo presenta un’omogeneità di suoni e di groove forse raggiungibile solo da band di pluriennale attività. Il disco contiene anche bellissime ballate come “The Angels’ Share” o “Slipping”, in cui l’immediatezza e l’orecchiabilità non vengono mai sacrificate alla banalità. Infatti, ciò che più piace del modo di scrivere di Lee sono le sorprendenti progressioni armoniche, mai scontate, sempre spiazzanti ed efficaci, sopra le quali viaggia l’eterna, “giovanissima” voce di Lee, che intreccia melodie veramente difficili da dimenticare. L’unico appunto che si può fare a questo lavoro riguarda i testi, per i quali Lee, forse troppo sbrigativamente, ha adottato l’approccio “tematico” tipico del suo paroliere ufficiale, Neil Peart.
I fans dei Rush non potranno che essere entusiasti di questo disco, così vicino alla musica del power-trio canadese, eppure così nuovo e pieno di futuro.

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