BECK, “Mellow Gold” (DCG, 1994)

#Richiami

È difficile capire il lascito di un album così atipico come “Mellow Gold”: famoso perché contenitore della ultra-hit “Loser” e per aver cominciato veramente l’epopea di Beck lanciandolo nell’universo di MTV e del pubblico generalista, è in realtà ancora intriso fino alle budella dell’approccio DIY fino a quel momento sperimentato dal cantautore di L.A. Quindi bisogna da una parte analizzare “Loser” e, sgomberato il campo da quella canzone ingombrante, passare al disco nel complesso.

“Loser” fa parte di quella categoria di brani che escono dal semplice significato di canzone per assurgere quello di documento fondante di un’epoca: come “Smell Like Teen Spirit” non sono più solo note e suoni ma rappresentano un tempo, un anno, un decennio come una fotografia famosa o un film che ha cambiato una generazione, e significano più di un trattato. “Loser” è in questo senso una canzone generazionale che da un lato ha fatto divertire quella Generazione X a cui apparteneva il 24enne Beck (per il lato danzereccio e di primordiale hip-hop bianco) e che dall’altro è entrata nella cultura pop mondiale di tutti – io credo – per via di quel ritornello irresistibile che non potevi far a meno di canticchiare nella tua testa non appena era finito e della simpatia che a pelle non può che instillare qualcuno che si autodefinisce “un perdente”, soprattutto se lo fa in un modo ironico come Beck (“So why don’t you kill me?”). Per gli anglofoni il testo poi aveva un fascino tutto particolare: nonostante fosse un collage di frasi non-sense, suonava davvero bene, come ha magnificamente raccontato Tom Breihan su Stereogum in occasione del 20ennale di “Mellow Gold”:

“Nel mettere insieme quelle stringhe di parole senza senso in “Loser”, Beck dimostrò una padronanza follemente sofisticata del modo in cui le parole possono suonare, del piacere che quelle combinazioni sonore possono dare. Per la mia generazione, “dog food stalls with the beefcake pantyhose” era una sorta di “cellar door”, una frase che, indipendentemente dal significato o dal contesto, aveva una sua bellezza“.

(da “Mellow Gold Turns 20“)

Queste considerazioni sono la superficie, ma l’analisi necessaria è che “Loser” poneva in campo un’estetica nuova per il pop mondiale: un pop sfilacciato, mutuato tanto dall’hip-hop quanto dal country, apparentemente estemporaneo ma intimamente con tutto al posto giusto come se diverse tessere di un puzzle si mettessero insieme in maniera corretta cadendo dall’alto su un tavolo: è impossibile, ma avvenne. Era la rivincita della cultura del rimescolamento, della contaminazione tipica degli anni ’90: metti insieme generi apparentemente inconciliabili e vedi cosa ne salta fuori, fai copia-incolla di frasi prese qua e là oppure scrivi il tuo flusso di coscienza e rappalo come avrebbe fatto Chuck D (e siccome il risultato non è minimamente paragonabile a quello del rapper dei Public Enemy, allora uccidimi, chissenefrega). Ecco, in fondo “Loser” è tutta qui al di là dell’iper-significato che è stato messo dentro a quel brano. Non dimentichiamoci che un mese dopo la pubblicazione di “Mellow Gold” si suicidava Kurt Cobain, per cui c’era bisogno di elevare subito qualcuno a cantore di quella generazione orfana e chi meglio di un “fannullone” perdente che dormiva sul divano? (“Got a couple of couches, sleep on the love-seat”)

“Fannullone un cazzo. Non ho mai avuto un attimo di tregua. Facevo un lavoro da 4 dollari l’ora cercando di sopravvivere. Quella roba da scansafatiche è per chi ha il tempo di deprimersi per tutto”.

(da un’intervista di Beck a Rolling Stone, 1995)

Il contraltare perfetto di “Loser” è “Mutherfuker”, un grunge gracchiante con la voce urlata e distorta il cui titolo dice tutto: come conciliare questi due opposti? Non si fa, e “Mellow Gold” non lo vuole fare: Beck sarà pure approdato a una major, ma non ha perso quella sua voglia di stupire e di cambiare sempre prospettiva sonora, canzone dopo canzone, retaggio probabilmente di quando si esibiva dappertutto e doveva cercare di attirare l’attenzione del pubblico. Perciò, come nei primi due dischi, la varietà è il vero dna dell’lp, sia tra un pezzo e l’altro e sia all’interno dello stesso brano: “Truckdrivin’ Neighbors Downstairs (Yellow Sweat)” rimane ancorata al concetto di “canzone folk rovesciata” che tanto piaceva a Beck (con tanto di voce modificata), “Sweet Sunshine” sembra un canto black intonato da un invasato, “Steal My Body Home” tira fuori dal cilindro atmosfere orientali inaspettate mischiati a violini scordati, “Nitemare Hippy Girl” sembra invece una outtake di idee estemporanee dei Nirvana. Ma il nocciolo numericamente più corposo di brani (“Beercan”, “Fuckin with My Head (Mountain Dew Rock)”, “Soul Suckin’ Jerk”) scoprono la vera arma in più di questo album rispetto alle precedenti prove di Beck: i ritmi campionati – la vera svolta del suono di Beck – che riportano tutto a una specie di hip-hop povero fatto da un bianco povero (ma allegro). Una roba simpatica, divertente, e questa volta non è un passatempo che funziona solo per chi lo fa (come accadeva soprattutto in “Golden Feelings”) ma arriva anche all’ascoltatore.

Certo, i brani non sono tutti memorabili, ma non poteva essere altrimenti: era naturale che in un album con un pezzo come “Loser” non ci potessero essere che gregari. Il che è stata una fortuna per Beck: ha potuto buttarsi alle spalle quella canzone che poteva fagocitarlo, che poteva renderlo un artista “one hit-wonder” (e anche l’album che la conteneva, che non era perfetto), per andare oltre. E si sta parlando di “Odelay”.

78/100

(Paolo Bardelli)