BECK, “Stereopathetic Soulmanure” (Flipsize, 1994)

Il 1° marzo 1994 Beck pubblica, con la Geffen, “Mellow Gold”. E questa è un’altra storia, la “vera” storia di Beck che tutti più o meno conoscono. Ma dieci giorni prima il menestrello losangelino aveva dato alle stampe il suo secondo album, “Stereopathetic Soulmanure” su Flipsize Records, come a voler chiudere il suo periodo antifolk e sperimentale, raccogliendo registrazioni particolarmente varie del periodo che va dal 1988 al 1993 non incluse nel primo “Golden Feelings”, e dunque anche di quel tempo in cui Beck si aggirava a New York come una specie di barbone (ci rimase fino al 1991 per poi tornare a L.A.).

“Stereopathetic Soulmanure” è uno step evolutivo rispetto alla selvaggia atonalità e frammentazione di “Golden Feelings” ma ne incarna in ogni caso lo spirito mettendo però in chiaro fin da subito la capacità compositiva del cantautore. Se infatti in “Golden Feelings” erano veramente pochi gli episodi in cui qualcuno avrebbe potuto scommettere su quella che è poi stata la carriera di Beck, questo lp contiene invece alcuni brani che sono, per i veri conoscitori di Beck, delle specie di “classici”. Chiaro che bisogna un po’ cercarli con il lanternino, persi come sono tra rumorismi vari (“Noise 2”), pezzi proto-garage-grunge improvvisati (“Pink Noise (Rock Me Amadeus”), divertimenti live (“Ozzy”), registrazioni casalinghe che tutto vogliono essere tranne che fruibili.

Il primo exploit è “Rowboat”, una canzone classicamente country: occorre pensare che agli inizi dei ’90 il country era totalmente fuori moda, per cui Beck compie un’operazione al contrario, riprende quello che gli piace (il country e il folk), e che vuole superare (il che è evidente dal suo scimmiottamento dei generi), ma questa volta dimostra che – se vuole – può incarnare al meglio anche quella tradizione, evolvendola (la voce è comunque modificata e sghemba). Ma il brano, come già evidenziato, è talmente perfetto che Johnny Cash ne fa poi, nel 1996, una cover contenuta in “Unchained”, il secondo episodio delle American Recordings.

Il secondo punto alto dell’album è “Satan Gave Me a Taco”, un incubo a occhi aperti in cui, dopo aver mangiato un taco offerto gentilmente nientepopodimeno dal diavolo, il protagonista del pezzo sta male, viene picchiato da una vecchietta, arrestato, giudicato in un’aula piena di “streghe e morti” (“The courtroom was filled / With witches and the dead”) e mentre gli stanno per tagliare la testa ecco il colpo di genio: è tutto un video rock, e da lì in poi la canzone descrive profeticamente (e ironicamente) la carriera di un cantante rock che, uccisa la band, fa il solista, guadagna un sacco di soldi e vince dei premi: una lucida visione del futuro?

Made a lot of money (aw yeah, I’m makin’ it)
And I gave it all away (give it all to me)
Well the band got killed (aw, bunch of losers)
So I started a solo career (aw haw, yeah
And I won all the awards (get ’em all now)

E il finale è ancora più spassoso: il protagonista, dopo essersi bevuto un sacco di birra, fatto canne e pere di eroina, apre un chiosco di taco e cucina e frigge all’inferno con il suo “amico” diavolo.

And I opened up the taco stand (aw haw, etc.)
Just to smell the smell
Cookin’ with the devil
Fryin’ down in hell

Il resto di “Stereopathetic Soulmanure” è sì un’accozzaglia di stranezze e semi-canzoni, ma questo “testamento” musicale del Beck anti-sistema incarna esso stesso, complessivamente inteso, la smisurata voglia comunicativa lo-fi del cantautore, e per certi versi anche la sua capacità narrativa.

70/100

(Paolo Bardelli)