Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta

Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.

#1

L’aurora di Metz è una rifrazione del suono impuro e dei toni parziali di Saint-Étienne. Il suo campanile è un faro sull’Ancienne Ville, ne scandisce i secoli intrisi di zinco e li risveglia ad esso, rintoccando.

Qui la gente è permeata da un verticalismo gotico che propaga una tensione architettonica rivolta a sé stessi, all’altro, al cielo che schiaccia tutto tranne che Dio.

Le chiese, i tetti, i padri che sulle ginocchia non si piegano mai, i figli che li vedono alti come montagne, le ascese faticose che fanno perdere di vista la valle fingendosi alternativa unica. Tipo quella concessa alla lamiera ondulata, fuori dalla boulangerie. La vedo scorrere ogni giorno a lentezza costante lungo due guide laterali, con un’incertezza ingrata che si avvicina a quella di un vertebrato al mattino. Una volta in vetta consegna apatica il suo destino al rullo, cigolante di ferro. Il ferro! Quanto ne ho ingoiato dalle orecchie per bocca di Blixa.

Il palco che ospitava gli Einstürzende Neubauten era lontano una decina di metri dalla mia fronte, rigonfia di pause interrotte da percussioni, flessibili e arnesi altri, mossi da una furia indemoniata. L’industrial music era già poco apprezzata fuori dall’underground berlinese, coldwave americana a parte, figuriamoci la probabilità di poterne gradire un anfratto sperimentale. Dai tedeschi mi ero sempre tenuto alla larga per via di barriere autoimposte, linguistiche e non. Fu perciò singolare ritrovarmi in casa loro, nei panni di un ospite indesiderato, alla ricerca di qualcosa di piacevole oltre che d’insolito.

Furono sufficienti pochi minuti per comprendere l’aver tributato un disco intero a John Cage, maestro indiscusso del gioco tra silenzio e suono. Non riuscii però ad afferrare il senso della cicca infuocata appesa al labbro di chi stava cantando; che intralcio ingombrante!

Litanie, martelli pneumatici, dissonanze, atmosfere rumoristiche, cacofonie tutte a bilicare su un filo di basso eppure in piedi. Le parole di Redukt sparate dritte sul torpore della rottura con Pauline, le narici da tener buone. Quell’esibizione aveva tutta l’aria di chi voleva riempirmi lo stomaco eppure lo stava svuotando.

Il minimalismo sotto ai rumori folli di “Silence Is Sexy” mi convinse ad acquistarne la versione in vinile per pochi franchi, come se potessi disassemblare quel frastuono ed isolarne l’innocenza nelle intenzioni iniziali.

Rientrai a Metz col sentore che qualcosa d’insolito fosse accaduto, qualcosa di piacevole no. E se è vero che i cadaveri non hanno nulla da dire, i miei sono proprio balordi.

Qualcuno, nella caligine di una Berlino Ovest post-bellica, si era messo a costruire nuovi palazzi con materiali piuttosto scadenti. I lavori procedevano con la polvere negli occhi, quindi male ed in fretta. Chiaramente quegli stabili andarono in pezzi, calcinacci su frantumi. Nuovi edifici che crollano, ecco cosa vuol dire Einstürzende Neubauten.

Dopotutto erano trascorsi mesi dall’ultima notte con Pauline, pochissimi mesi. E Sabrina era lì, a dare un morso al pane caldo. Io ritto come un palo, serio che c’era da preoccuparsene, a fiamma alta sulla meringata, tra scorzette di limone e d’arancio, burro fuso e madeleines. Indossavo un grembiule di lino marron glacé a due tasche, non in grado di proteggermi dallo sporco né di contenere o celare i miei vuoti coperti di pelle.

Gli EN cantavano di una Sabrina in apertura del disco senza il coraggio di nominarla, lasciandone presagire un incarnato che non sarebbe mai stato adeguato né possibile da immaginare, solo auspicato.

It’s not the red of the dying sun/ The morning sheet’s surprising stain/ It’s not that red which we bleed. E via discorrendo. Prevaleva ora il rosso ora il nero, ora una fusione di entrambi. Come se una donna potesse coadiuvare l’ardore e la morte nel bollore di una stessa fornace per poterli liquefare.

Bastarono pochissimi altri mesi per inquinare le mie mattine fatte di file ordinate, merci Jean-Michel e bonjour madame. La boulangerie, dove presto servizio da dieci anni, si fece pregna della melancolia trasposta nelle liriche cadenzate di Die Befindlichkeit des Landes. Pavimento, soffitto, pareti, vetrate, e anche quelle mattine lì, divennero profeti di future rovine.

Lo studio del tedesco era stato per me un tentativo di compiacerla, lei imparò il francese a suon di schiaffi con La Bonne Chanson di Verlaine. I poeti maledetti tutti in fila davanti al camino, i piedi a scaldarsi, le mani ad ungersi, le gambe e le bocche lì a prender fuoco. E all’attecchire dell’intimità che non equivale al sesso, le cose iniziano a complicarsi, lo sanno davvero tutti.

Sabrina disponeva di una capacità d’immedesimazione pari a quella che aveva di rammendarli i panni. Ci riducemmo così ad univerbazione forzata, per revocare apostrofi e spazi afoni pur di ritrattare lo smarrimento antecedente solo a certe incombenze, tra queste il distacco.

«Stai disinvestendo?» le chiesi. Mi fissava come solo i gatti sanno fare, irremovibile ma disattenta, con la camicia da notte piena di bottoni e una vestaglia talmente lunga che a nudo metteva solo i piedi. Scosse la testa per dirmi un no che voleva dire sì, mi diressi in bagno senza indagare. Alcune gocce macularono la moquette, altre si fermarono in gola; preparai l’ovatta.

C’è chi vive muovendosi tramite il corpo, poi c’è chi vive il corpo. Allora l’epistassi non è più un’emorragia, diventa un processo emotivo come lo è la paura.

Che siano lodati, quei pensieri lì, e non stigmatizzati! Li sentiamo girare, girare, girare attorno alle loro stesse assi in cerca di un supporto su cui potersi adagiare, con una forza di rotazione che si adatta a quella dell’impulso che li stimola e pressa.

I figli dei pensieri censurati sono imprevedibili, temporanei, a volte liquidi, sempre legittimi.

Nessuna cinghia, l’esecuzione è piena di intoppi. Il baratro immateriale li cova sul fondo e la carne li sputa all’aria, lungo una linea che parte dal motore e segue cortissima, verticale, diretta; fino al piatto.

…continua…

(Antonia Salcuni)
IG: @eco_disco_gramma

A questo link potete trovare la presentazione del progetto.