[Coverworld] “Weird Fishes/Arpeggi”

All’interno di quello che è forse l’ultimo “album generazionale” dei Radiohead, ovvero “In Rainbows” (2007) c’è la soave “Weird Fishes/Arpeggi”, una apotesi di incroci di arpeggi di chitarra su una tela libera e ariosa che improvvisamente, alla fine, si tinge di foschi presagi e inquietudini inenarrabili. Questa è la canzone scelta per la prima puntata, il “pilot”, della nostra nuova rubrica “Coverworld”, perché quest’estate ben due artiste di punta hanno deciso di rifarla: vediamo come, assieme a tutte le altre versioni presenti nei servizi di streaming, alla ricerca della “Weird Fishes/Arpeggi” perfetta (al di fuori della versione originale dei Radiohead, obviously).

La versione di Kelly Lee Owens, fresca in questi giorni della copertina di NME, è in austera salsa kraut: gli arpeggi diventano prerogativa di un arpeggiatore (funzione dei synth che riproduce una sequenza ordinata di note programmata su un solo tasto) e il paesaggio si fa totalmente asettico dall’inizio alla fine: i panorami aperti a vista d’occhio della prima parte della song si trasformano in pura attesa strumentale. Del resto la producer gallese la pone proprio all’inizio del suo secondo album “Inner Song”, affidandole un’importanza elevata per essere una cover: “Arpeggi” (il titolo ha perso il “Weird Fishes”…) ha quindi l’onere e l’onere di aprire l’ascolto del suo nuovo lavoro uscito quest’estate.

Lianne La Havas invece cancella dal titolo “Arpeggi” e lascia “Weird Fishes” (molto strana ‘sta cosa, forse credevano che non ce ne accorgessimo?), ma soprattutto si approccia alla canzone in maniera piuttosto fedele all’originale, rallentandola un poco ma mantenendo praticamente lo stesso tempo di batteria e climax, eliminando le chitarre, certo, ma con lo stesso risultato jazzy dell’originale. La sua voce si staglia con classe, però nel complesso la canzone non ne acquista in fascino, soprattutto nel finale in cui permane una certa impressione di “esibizione”, come se la La Havas si compiacesse un po’ anche se all’interno di un buon crescendo.

Un piacevole viaggio è invece la versione strumentale opera della Noordpool Orchestra (42 musicisti del nord Olanda), e contenuta nell’album “Radiohead, A Jazz Symphony” (2012). Si apprezza la volontà di orchestrare il tutto in logica soundtrack, senza stare esattamente imbrigliati dalla melodia vocale. Molto bello l’inciso mediano con un inserto di una tromba jazzata e delicata, così come il finale punta all’enfasi dei violini. Un po’ la stessa logica seguita dal Ladom Ensemble, un quartetto da camera canadese che aggiunge la fisarmonica il che rende tutto un po’ sghembo pur in una esecuzione senza troppi sussulti, ma con una buona atmosfera finale (merito dell’accordion).

Il pianista australiano Josh Cohen, invece, contribuisce con il suo svolgimento solo pianoforte, tremendamente scolastico, da dimenticare, così ugualmente non riuscita, all’inizio sufficiente ma nel prosieguo fastidiosa, è la cover solo piano di William Haviland, inglese che ora vive in Corea del Sud. Allora meglio mettere sopra il pianoforte una voce femminile come fa l’argentino Marco Sanguinetti («Como desaparecer completamente», del 2016, è l’album), il risultato non è dei più movimentati ma anche il finale roboante regge (da un punto di vista musicale, qui la voce di Milena L’Argentiere non aiuta).

Un po’ frichettona, alla Fleet Foxes tanto per intenderci, è invece la versione con trio di chitarre classiche del California Guitar Trio, rallentata e meditabonda, con un cantato un po’ troppo enfatico che lascia il passo ad un assolo finale straziante.

Non considero le versioni solo archi, perché a mio parere molto indisponenti (come quella del quintetto Sybarite5), mentre arriviamo finalmente alle mie versioni preferite, che sono due: una è il viaggio tra l’horror e la favola folk del brasiliano Guga Costa (“Delirico O Mundoceano” l’album), irriconoscibile quando inizia la canzone e poi puntellata da una fisarmonica che accompagna in meandri molto malati fino al dialogo in portoghese finale, come un racconto di fianco a un fiume. Sicuramente Guga Costa aveva qualcosa da dire, quando ha scelto di rifare “Weird Fishes/Arpeggi”, e questo non lo si può dire per tutte le cover qui analizzate.

L’altra, la “vincitrice”, è quella opera di Alexa Melo: cantautrice, multistrumentalista e produttrice, la losangelina Alexa Melo ha pubblicato nel giugno del 2015, a 20 anni, il suo album di debutto omonimo per poi stare ferma un anno per un problema alle corde vocali e trasferirsi nel 2017 a San Francisco. Tra l’altro nei mesi scorsi ha pubblicato una serie di singoli tra cui questa “Digital” dalle tinte tipicamente Nineties, tra il riff iniziale di “Pet Semetary” e il prosieguo à la No Doubt, contenuta nell’album “DEMOÏTIS” (2020).

Ma non divaghiamo: la sua “Weird Fishes / Arpeggi” è fantasticamente cristallina, una bolla in cui la classe di esecuzione va di pari passo a una leggera psichedelia. Gli arrangiamenti si svuotano, i bpm calano, l’eleganza regna sovrana, fino ad arrivare al finale sottolineato da dei bei riff di chitarra elettrica e un’interpretazione vocale a mio parere elevatissima. Brava Alexa (che poi sentitevi pure la sua cover di “Lotus Flower”, deliziosamente gotica e pomposa…), scoprendoti grazie a questa cover abbiamo ora anche la possibilità di ascoltare la tua musica originale, ed è anche questo il senso di “Coverworld”.

(Paolo Bardelli)