CHARLI XCX, “how i’m feeling now” (Asylum, 2020)

“Station Eleven” è un romanzo di Emily St. John Mandel che parla di una pandemia che sostanzialmente spazza via gran parte dell’umanità.
Uno dei personaggi, chiuso in casa da settimane, continua ad osservare il mondo fuori. No planes, no ships, and where was the Internet?
Non è il caso della nostra pandemia, dove Internet è invece diventato, ancor di più, il (non-)luogo preminente. Charli XCX in realtà ci era arrivata molto prima ed il suo rapporto con la sua fanbase/community è da sempre uno dei più stretti ed interessanti del panorama, tanto da risultare oggetto di studio da parte del tech-filosofo Mat Dryhurst, che l’ha citata come uno degli esempi principali di interdependent music. Il lockdown ha esasperato questo fenomeno al punto che dal dialogo tra artista e fan sui social sono nati di fatto alcuni titoli delle canzoni e alcuni artwork.

Definito dall’autrice come il suo quarantine album, siamo davanti ad un vero e proprio archetipo di lockdown-pop. “how i’m feeling now” è un disco con molte più contraddizioni di quante rivelerebbe ad un primo ascolto, come del resto tutta la produzione di Charli XCX.
Il principale contrasto è quello tra gli immaginari zuccherosi dei testi e le sonorità dure ed oscure che li accompagnano. Il merito è del solito A.G. Cook, pur con con qualche eccezione, come l’aggressivo beat demoniaco di “pink diamond”, a cura di Dijon.
Il disco contiene diverse canzoni d’amore, che possono donare a tratti un’atmosfera un po’ cheesy al lavoro, soprattutto nel caso della ballad “claws” che funziona meno delle sorelle “forever” e “7 years”. Il retrogusto che lasciano è tuttavia claustrofobico. È un “sole, cuore, amore” senza il sole, è un aggrapparsi all’amore, perché tutto il resto è là fuori ed è irraggiungibile.
La tracklist non è più tempestata di comparse, come Charli ci aveva abituato. Del resto è un album dove diverse cose son state registrate in casa, una cosa che alla nostra non succedeva da quando la cantante era una teenager che viveva ancora con i suoi. La mancanza di intrusioni di altre voci, toglie la possibilità di costruire dei dialoghi all’interno delle canzoni e costringe il songwriting ad una virata più intima, tenera addirittura. Non vi è quasi traccia della tempesta edonistica che permeava la discografia precedente.
Dove sono le flexate? La FeverRay-ish “visions”, un pezzo con una coda da rave, è inaspettatamente il pezzo di chiusura e non l’apice di un crescendo, come se quelle atmosfere fossero solo proiettate e non tangibili.

Pur continuando a pescare da UK Garage, trap e techno, i suoni sono più aggressivi del precedente lavoro ed il confronto è facilitato da un pezzo come “c2.0” che altro non è che una rielaborazione di “Click”, un pezzo dell’anno scorso. Il pezzo nella nuova confezione è una specie di sogno robotico, metallico, post-umano.
La voce di Charli è, al solito, enormemente manipolata e processata, trattata più come un synth da integrare con la trama sonora che come una linea vocale con cui sovrastarla. Il glitching continuo dona una sensazione di costante instabilità ai pezzi, come se fossero un software sul punto di crashare da un momento all’altro. Una fragilità talmente tanto digitale da sembrare umana. Cosa chiedere di più dal pop nel 2020?

78/100

(Carmine D’Amico)