BON IVER, “i,i” (Jagjaguwar, 2019)

“i,i”, quarto disco di Bon Iver pubblicato dalla Jagjaguwar, consacra la creatura di Justin Vernon come uno dei progetti musicali più interessanti dei primi anni del Ventunesimo secolo. Mai come in questo disco, la voce di Justin, distorta e moltiplicata dagli effetti sonori e sovrastata da lampi di elettronica che perturbano le armonie pop, folk e gospel, è capace come poche altre di raccontare e allo stesso tempo reinventare la realtà frammentaria e scorporizzata dei nostri giorni.

Che Bon Iver si sia lasciato alle spalle gli spettri e i tormenti interiori degli esordi, è evidente fin dalle prime note della surreale “iMi”, un pastiche sonoro cubista in cui le voci spezzate di Justin e James Blake si inseguono in un crescendo luminoso di synth, distorsioni, fiati, chitarre acustiche e confessioni lisergiche: “All my life / iMi was / Ooh, mine was a lover of a wrong kind”. Il cerchio è chiuso. È passato l’“inverno del nostro scontento” di “For Emma, For Ever Ago”. La successiva “We” è una delle traccie più sperimentali, con gli arrangiamenti hip-hop e quel riff di chitarra ipnotico che scompare in un refrain di pianoforte e fiati lasciando solo la voce in falsetto e delle chitarre lontanissime che si spengono improvvisamente. Da una canzone che non finisce a una che non inizia mai, per uno dei passaggi più intensi del disco: i tre minuti di “Holyfields” vivono di una successione di rumorismi e sonorità sommesse che, tenuti insieme dalla vociferazioni di Justin, si trasformano in un finale orchestrale dominato dagli archi e da cui emerge una ballata pop in pieno (non)stile Bon Iver: “Hey, Ma” è struggente ma non resterebbe impressa se non fosse per quell’ansiogeno bip che ricorda il monitor cardiaco degli ospedali e per un testo immaginifico in cui madre e Terra si sovrappongono nella loro funzione genitiva: “Full time, you talk your money up / While it’s living in a coal mine / Tall time to call your Ma / Hey Ma, hey Ma”. C’è ancora tempo per godersi “U (Man Like)”, un’invettiva politica incentrata sulla dicotomia verità/percezioni e impreziosita dal pianoforte del genio pop di Bruce Hornsby, dalle voci del trio Jenn Wasner-Moses Sumney-Elsa Jenses e dal Brooklyn Youth Chorus, prima che la vena sperimentale si affievolisca e prevalgano, nella seconda parte del disco, suggestioni più standard di elettro-gospel (“Naheem” e “Faith” su tutte), folk minimale (“Jelmore” e “Marion”) e dark-pop che ricordano molto l’ultimo David Bowie (è il caso di “Sh’Diah”, che per inciso sta per “shittiest day in american history”, ovvero il giorno in cui Trump è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America).
A tratti i testi continuano ad apparire troppo enigmatici, e il tessuto sonoro non riesce a liberarsi pienamente della forma-canzone. Quando invece ciò accade, come nella chiusa del disco “RABi”, il risultato è la perfezione: tre minuti e mezzo di sonorità stranianti, lirismo imploso, chitarre fuori dal tempo, voce eterea e un testo sospeso fra la nostalgia dell’infanzia e l’incertezza di un futuro leggero come i sogni: “So what of this release? / Sunlight feels good now, don’t it? / I don’t have a leaving plan / But something’s gotta ease your mind / But it’s all fine or it’s all crime anyway”.

80/100

(Emmanuel Di Tommaso)