ANGEL OLSEN, “All Mirrors” (Jagjaguwar, 2019)

Se l’unico limite di “My Woman” (2016), e l’avevamo sottolineato in recensione, era il suo essere sostanzialmente adagiato lungo le linee di un folk-rock di tipo classico, con “All Mirrors” Angel Olsen fa un difficile e superlativo passo in avanti: utilizza un linguaggio attuale con una classe che ancora non aveva dimostrato (prima puntava maggiormente su una certa sincerità ruspante) e allarga il suo campo sonoro con l’introduzione, negli arrangiamenti, di una orchestralità magniloquente ma piena di contenuti. Laddove prima c’era solo una chitarra, elettrica o acustica che fosse, oggi ci sono violini, violoncelli oppure pad da synth.

Reduce da una separazione amorosa, “All Mirrors” diventa pertanto la rivincita per riemergere, lo spazio personale dove accorgersi che si è andati avanti, nonostante tutto: esemplificativa in tal senso è la suadente “Tonight” (“I like the air that I breathe … / Without you”), con la voce della Olsen che si trasforma in un soffio vitale come una persona che riprende fiato dopo un’immersione. Ma in generale il suo canto è in equilibrio tra dolce dolore e speranza imminente, intriso di quella consapevolezza che solo chi vuol raccontare la propria storia sa donare alla propria timbrica.

Sia Angel Olsen che la Weyes Blood di “Titanic Rising” contribuiscono dunque ad aggiornare il linguaggio pop della fine degli anni Dieci con orchestrazioni che diventano dunque un controaltare delle tendenze pop elettronico-digitali: come a dire che il pop può vivere, oggi, solo di pulsazioni di bit oppure dei vecchi, classici e cari violini (eventualmente anche solo sintetici come nella bellissima “Summer” o nella titletrack “All Mirrors”) che garantiscono quell’estetica elegante che si confà ai nostri tempi.

80/100

(Paolo Bardelli)